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Orario di lavoro. Gli specializzandi non sono automi

di Ivan Bernini
17 MAR - Gentile Direttore,
le argomentazioni del Dr. Maldini a sostegno della propria posizione critica nell’applicazione della Direttiva del Parlamento e del Consiglio Europeo in materia di orario di lavoro anche agli specializzandi credo meritino una attenta riflessione. Ancor prima di esprimere valutazioni sui contenuti di quella Direttiva, ritengo utile esplorarne le premesse che anticipano l’articolato normativo. Collegandole per quanto possibile al concetto stesso di Salute formulato dall’Organizzazione Mondiale all’atto della sua Costituzione; un concetto che si rivolge a tutta la popolazione, non ad una parte di essa. Tanto a coloro che ricevono i servizi di salute tanto a coloro che li erogano.

Quali sono le premesse fondamentali:
- Prescrizioni minime di sicurezza e sanitarie in materia di organizzazione dell’orario di lavoro;
- Miglioramento delle condizioni di sicurezza e di salute durante il lavoro, il cui obiettivo non può prescindere da considerazioni di carattere puramente economico;
- Considerazioni dei principi proposti dall’Organizzazione Internazionale del lavoro (OIL) partendo dagli studi svolti nella correlazione tra lavoro, turni, orari e condizioni di salute dei lavoratori;
- L’affermazione che l’organizzazione del lavoro secondo un certo ritmo deve tenere conto del principio generale dell’adeguamento del lavoro all’essere umano.

Quella Direttiva, i contratti collettivi nazionali di lavoro, quando hanno formulato indirizzi sull’orario di lavoro non lo hanno fatto seguendo altri principi se non quelli legati agli studi sul rapporto lavoro/salute. E con piena consapevolezza e responsabilità, peraltro, tenendo presente che il lavoro di “erogazione della salute” viene svolto da esseri umani nei confronti di altri esseri umani. E gli specializzandi, come gli altri, sono tali e non automi. Che devono studiare, formarsi e contemporaneamente svolgere attività a seconda della specializzazione che hanno scelto. Avendo lavorato da sempre come Infermiere in una Azienda Universitaria, ho ben presente e viva la condizione nella quale operavano Chirurghi, Anestesisti, specializzandi e personale sanitario.
 
Una condizione che in altri tempi, per quanto il termine possa apparire desueto, rasentava lo sfruttamento. Una condizione, paradossale, per la quale proprio gli attori protagonisti del “sistema salute”, erano e sono i primi a non veder rispettata la propria salute in nome di un richiamo specioso ad una “mission” – prendersi cura degli altri indipendentemente da tutto – più legato ad una cultura di matrice religioso/paternalistica che deontologica.
 
“Sarebbe interessante sapere se questa riduzione dell'orario è ben accetta dagli specializzandi o se al contrario loro vorrebbero lavorare di più“, si chiede il dottor Maldini. Chiediamoglielo. Sono convinto che la domanda sia retorica e la risposta scontata. Peraltro quello che gli specializzandi stanno già da lungo tempo chiedendo, se vogliamo parlarne, è di avere un trattamento economico dignitoso, di poter sul serio essere messi nelle condizioni di acquisire competenze per crescere professionalmente e non di fare “i portaborse” di chicchessia sperando di acquisire “titoli” per poter, una volta terminati gli studi, entrare nel mondo del lavoro per meriti acquisiti e non per altro. Aspirano a trovare un lavoro che sviluppi appieno il loro percorso di studi ed il loro progetto di vita. Credo che queste siano le risposte che si attendono.
 
Infine propongo una riflessione: per quale ordine di ragionamento dovremmo essere credibili verso l’esterno, quando spendiamo il nostro lavoro, il nostro pensiero e le nostre passioni nel rivendicare l’esigibilità della salute in tutti i suoi aspetti quando, in fin dei conti, da protagonisti ed attori del “sistema salute” esprimiamo valutazioni che non ne tengono in considerazione nemmeno i suoi principi basilari per chi ne fa parte?
 
Ivan Bernini
Segretario Generale FP CGIL Treviso 

17 marzo 2016
© Riproduzione riservata

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