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La rivoluzione silenziosa del consenso informato e l’autodeterminazione del paziente

04 DIC - Gentile Direttore,
questo mio intervento nel dibattito in corso tra Benci  e Cavicchi non è fatto per alimentare la polemica in atto tra i due, né tantomeno per schierarmi con chi ritiene che il “paternalismo ippocratico” continui ad essere il modello etico-culturale della medicina contemporanea né con chi lo ritiene superato e ne propone uno nuovo.
 
Il mio obiettivo è portare il modesto contributo di un medico legale che si è occupato della questione consenso informato fin dall’inizio del suo irrompere nella pratica clinica. 
 
Non credo sia corretto liquidare il consenso informato come semplice pratica burocratica, per lo più di medicina difensiva, di poco conto per i medici e di ancor meno utilità per i pazienti. Infatti, il Consenso informato ha cambiato il modo di essere medici, il nostro modo di essere medici - e non parlo di paradigma perché a quanto ho letto, l’utilizzo di tale parola è appannaggio del “saper alto” dei filosofi.
 
Parlo invece di un cambiamento profondo, in quanto il Consenso informato ha introdotto il dovere di informare il paziente su tutto ciò che compete la sua salute e di renderlo partecipe delle scelte che lo riguardano.
 
E questo cambiamento è all’origine di quella che anni fa chiamai la “rivoluzione silenziosa” (M. Immacolato, La rivoluzione silenziosa nella medicina italiana: consenso informato e comitati etici, Notizie di Politeia, anno XX, N. 75, 2004), che è ancora in atto nel mondo sanitario occidentale, anche se poi ci sono state dure critiche (per tutte i casi Welby ed Englaro) e forti resistenze, come testimonia la polemica in corso.
 
Con l’avvento del Consenso informato la “coscienza” del paziente riceve pieno riconoscimento e trova posto  accanto a quella del medico che fino ad allora (nel cosiddetto mondo ippocratico paternalista) era invece il solo agente morale. Questa nuova visione si è presto diffusa in ambito sociale e ha trovato un forte riconoscimento nelle pronunce delle Corti, che hanno stabilito che le persone hanno il diritto di sapere e di decidere in merito alle cure che vengono loro proposte.
 
È vero che fino alla fine del secolo scorso, nel nostro paese,  la modalità di rapportarsi al paziente era rimasta ferma  a  quello che Erodoto  descrive nelle Storie (II, 84 ss.: Erodoto è del V sec. a.C.) quando presenta il buon medico: “Fa tutto con calma e competenza, nascondendo il più delle cose al paziente mentre ti occupi di lui. Dà gli ordini necessari con voce lieta e serena, distogliendo la sua attenzione da ciò che gli viene fatto; qualche volta dovrai rimproverarlo in modo aspro e risentito, altre volte dovrai confortarlo con sollecitudine e attenzione, senza nulla rivelargli della sua condizione presente e futura”. In breve, al medico ippocratico era riservato il cosiddetto “privilegio terapeutico”, ossia la discrezionalità di dire o di non dire la verità al paziente.
 
Una formulazione del privilegio terapeutico con parole pressoché simili a quelle di Erodoto è rinvenibile nella sentenza del 16 aprile 1964 della Corte d’appello di Milano: “Risponde ai criteri di ragionevolezza che devono caratterizzare la valutazione dei fatti umani, oltre l’astrattezza e il formalismo delle norme, che il chirurgo taccia al malato la gravità del suo male e il rischio che un’operazione comporta, criterio sanzionato da una prassi tramandata a noi da tempi antichissimi, e consacrata nei principi deontologici, secondo cui il celare all’ammalato la nuda verità è precipuo dovere, forse il più nobile, del medico cui spetta di vagliare ciò che il paziente debba sapere e quanto debba essergli nascosto”.
 
Questa impostazione resta sostanzialmente immutata nel Codice deontologico dei medici fino alla versione del 1989 inclusa: lo si può vedere con chiarezza scorrendo l’accurato recente volume del dr. Marcello Valdini (La deontologia medica nell’evoluzione codicistica. Una lettura sinottica delle sette edizioni 1958- 2014 e relativi giuramenti, Ananke Lab, Torino, 2017), in cui è facilmente riscontrabile la trasformazione dei vari articoli, il loro ingresso, la loro uscita e le varie modifiche introdotte.
 
Quest’impianto millenario ha cominciato a cambiare radicalmente agli inizi degli anni ’90, quando anche nella società italiana si è respirato un clima culturale nuovo e sono state pronunciate le sentenze sul caso Massimo, dalle quali emerge che l’elemento centrale di valutazione che porta alla condanna del medico fiorentino è proprio la volontà della paziente, che non è stata rispettata dal chirurgo.
 
Di lì a poco, il Codice di deontologia medica ha recepito il cambiamento, ponendo con decisione il Consenso informato a fondamento della pratica medica : il codice deontologico del 1998 (il Codice Pagni, allora Presidente della Fnomceo) ha affermato un nuovo modello di rapporto terapeutico basato sul principio di tutela dell’autodeterminazione del paziente. Dopo circa 2500 anni, per la prima volta, il medico viene vincolato alla promozione della piena e consapevole adesione del paziente ad ogni atto medico che diventa legittimo solo se preceduto dal Consenso informato valido, senza il quale risulta essere atto illecito.
 
Questo è un cambiamento di portata eccezionale che non può essere liquidato con poche parole con cui si cerca di rimandarlo a una mera pratica burocratica. Sull’importanza strutturale del Consenso bisogna invece riflettere attentamente, anche vincendo le resistenze che vengono dalla visione tradizionale.
 
L’innovazione apportata dal Consenso informato risulta ancora più rilevante se si considerano tre altri aspetti di novità. Il Codice 1998 ha affermato la necessità di informare e di promuovere il Consenso informato anche per i minori e gli incapaci, laddove possibile. Se ora il Consenso informato va promosso anche nelle situazioni di fragilità e di immaturità psichica, significa che esso ha davvero un rilievo decisivo nella relazione medico-paziente.
 
Inoltre, il vero nocciolo del cambiamento iniziato col Codice 1998 sta nel fatto che la “coscienza” del paziente viene posta accanto a quella del medico e si tratta di metterle in sintonia sulla scorta del criterio che il medico è al servizio del paziente e ne deve promuovere l’empowerment. Infine, nel Codice 2006, ancor prima della legge (che a tutt’oggi non c’è!), i medici hanno riconosciuto il valore delle direttive anticipate che completano la rivoluzione apportata dal Consenso informato, in quanto affermano il valore decisivo alla volontà del paziente anche nel momento in cui questi fosse diventato incapace di esprimerla.
 
Mentre il modello Ippocratico Paternalista sottolineava in primis la “scienza e coscienza” del medico e poneva il paziente in una posizione di “minorità morale” non avendo questi titolarità alcuna né circa le informazioni attinenti la sua salute né circa le relative scelte terapeutiche, nel nuovo modello l'informazione e il Consenso, diventano parte integranti dell'atto medico: informare è parte della cura e acquisire il consenso rientra a tutti gli effetti nel tempo di cura.
 
Per le ragioni sopra esposte dobbiamo prendere atto che a cavallo del secolo si è verificata una “rivoluzione copernicana” che ha cambiato, e forse anche sconvolto, gran parte delle  categorie medicocentriche che erano proprie dell’universo ippocratico paternalista rimasto pressoché immutato fino al xx secolo. Per cogliere appieno la portata di tale rivoluzione, si consideri solo un aspetto fra i tanti, e cioè quello della finalità di cura: in passato la principale legittimazione dell’atto medico era la finalità di cura, che da sola bastava a giustificare qualsiasi intervento. Ora, invece, (dalla fine del secolo scorso) è il Consenso informato che ha assunto il ruolo di fondamento di legittimità del trattamento sanitario, che senza di esso è illegittimo, anche in presenza della finalità di cura.
 
Mentre rilevo questo, so bene che la pratica quotidiana spesso è imperfetta e lontana dal modello proposto. Resta da fare molto lavoro per far crescere la consapevolezza degli operatori sanitari circa la portata etica del Consenso informato. Questa discrepanza ha più chiavi di lettura. Una prima interpretazione fa osservare che la “rivoluzione copernicana” è vecchia di 400 anni e che oggi più nessuno sostiene il sistema tolemaico in astronomia: eppure nel nostro linguaggio comune siamo ancora tolemaici quando diciamo “tra un po’ il Sole gira e qui verrà l’ombra”. Quindi non dovremmo sorprenderci più di tanto se i medici non hanno ancora abbandonato millenni di ippocratismo, visto che il cambiamento del Codice di deontologia risale circa due decenni fa.
 
Una seconda chiave di lettura (abbastanza diffusa) è che il Consenso informato si sia imposto sotto la spinta delle sentenze che condannano in modo puntuale e sempre più tassativo i medici che attuano il trattamento senza il preventivo Consenso. Secondo questa prospettiva, il cambiamento non è maturato all’interno della classe medica ma è stato introdotto dall’esterno, da una  riflessione filosofico-giuridica e dal dibattito bioetico che in Italia si è diffuso a partire dagli ’80 grazie ad associazioni culturali come la Consulta di Bioetica. Per questo si rileva una certa difficoltà ad accogliere la novità del Consenso informato.
 
Un’ultima chiave di lettura che propongo (e che mi sta particolarmente a cuore) è che invece anche all’interno della medicina una parte significativa (ancorché minoritaria) del sapere medico aveva già prodotto elaborazioni favorevoli al Consenso informato, e che queste hanno poi ricevuto grande impulso per la spinta delle sollecitazioni esterne di carattere giuridico e filosofico. È per questo che i medici sono stati poi pronti a recepire le nuove istanze etico-sociali, accolte nelle versioni del Codice di deontologia medica 1998 e successive, le quali – almeno sul piano deontologico – hanno modificato con nettezza l’impianto tradizionale e indicato che il Consenso informato non è affatto un attacco all’autonomia professionale e scientifica del medico.
 
In breve, la bioetica, la riflessione giuridica degli ultimi trenta anni e il migliore sapere medico che ha preso corpo nell’aggiornamento dei codici deontologici, hanno ormai chiarito che non c’è, né deve esserci, contrasto o conflitto tra indipendenza professionale del medico e autonomia del paziente, ma che anzi c’è, e deve esserci, piena compatibilità; che c’è, e deve esserci, pari dignità tra “coscienza” del medico e “coscienza” del paziente;  e che la buona pratica clinica è quella che mette il paziente nella condizione di condividere la scelta diagnostico-terapeutica sulla base di una informazione aggiornata, fondata sull’evidenza scientifica, che sia completa, comprensibile e soprattutto rispettosa della volontà del paziente.
 
Mariella Immacolato
Direttore dell’U.O.C. di medicina legale, Azienda USL Toscana Nord-Ovest

04 dicembre 2017
© Riproduzione riservata

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