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Morire in ospedale, a Prato nasce il Patto d’ospitalità

10 APR - Gentile Direttore,
le scrivo per condividere con i suoi lettori alcune considerazioni su criticità e possibili soluzioni relative al morire in ospedale, pensato al “minimo delle sue possibilità” (Cavicchi ,2022), o in altri luoghi di cura, dove comunque la morte non è pensata come transizione, ma come fatto.

Cavicchi su questo stesso giornale, nel suo articolo di sintesi al forum sull’Ospedale nel 2021, riassunse i diversi contributi sottolineando che l’Ospedale “sollecitava un cambiamento di genere diverso, certamente clinico-organizzativo, ma prima di tutto socio-culturale, politico e di conseguenza anche finanziario e normativo”. Come tutti i servizi di cura l’ospedale ha il dovere di essere nei confronti dei malati adeguato, interconnesso, ad alta complessità ed ospitale, per accogliere transizioni complesse come la malattia e la morte.

Le considerazioni che pongo nascono da un incontro sul web con un gruppo di pensiero del progetto “Da vivi – Il miracolo della finitezza”, ideato da Elisa Sirianni, sviluppato e curato con Mario Biagini e con la consulenza di Carlo Biagini, Costanza Lanzara e mia; prodotto dal Teatro Metastasio di Prato, con il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Prato e con numerosi “alleati” partner del progetto. Un progetto dedicato al complesso tema della mortalità con 5 percorsi: conferenze, laboratorio teatrale, assemblee cittadine, la proposta di un Patto di ospitalità, un gruppo di pensiero e interviste e spettacoli teatrali. Lo scopo è rimuovere il tabù della morte.

La morte pervade la vita, ma la risposta pubblica ad essa continua a limitarsi al sensazionalismo e al silenzio, o peggio all’indifferenza, rimuovendola. La società incrementa questa rimozione delegando ad altri la gestione della cura della morte. La cultura, portata comunque e sempre dalle persone, si “impoverisce dell’importanza del passaggio”, che perde vitalità, dando rilevanza solo all’evento, al fatto.

Essendo la morte una transizione, un passaggio, ha a che fare con il costituirsi del soggetto, il suo darsi forma in quanto morente, e necessita di una dialettica costante tra la salute, il suo venire meno e l’identità del soggetto che passa da una condizione di salute all’altra, nel tempo; cosa che richiederebbe alla cura nuove e più complesse modalità conoscitive della persona, e luoghi di cura dove la paura della morte non fosse esacerbata da organizzazioni troppo strutturate, meccanicistiche, e da modi di essere professionisti, malati, strutture, poco relazionali, ma placata, perché comunicata con linguaggi e sentimenti propri del morente, con strumenti operativi che colgano il bisogno differenziato portato da identità differenziate. Luoghi in cui la relazione è cura (L.219/2017) e dove il professionista, medico e/o infermiere, possa avere uno sguardo fermo e attento al dettaglio, perché sappiamo che l’uomo è un testo complesso da interpretare e la complessità è fatta di dettagli; dove si possa usare un orecchio scaltrito, capace di cogliere dissonanze organizzative fra sistema e malato. Uno sguardo che colga la percezione di ciò che l’altro, il malato, è in se stesso, di ciò che egli ha di unico, e non di ciò che ha in comune con tutti gli altri. Un malato morente ebbe a scrivermi: “I medici non ne sanno più di chi sta morendo, ne sanno di meno, ma non vogliono sapere altro da ciò che sanno. La loro conoscenza di noi è frutto di una media ricavata da osservazioni spesso affrettate, standardizzate quindi incomplete, ogni morte è una morte a sé però…”

Ascoltando i cittadini, i gruppi di pensiero, le conferenze con esperti, pensiamo che ci sia bisogno di elementi di ancoraggio, per malati e professionisti, elementi cui aggrapparsi per tornare a utilizzare lo sguardo, gli occhi, le parole e il tatto quando le parole non servono più. Strumenti che ci aiutino a cambiare le prassi. Il Patto d’ospitalità è il maggiore degli strumenti, perché permette di risolvere molte criticità conosciute sul morire, obbligando il sistema a cambiare l’agire, medico e infermieristico – agire che dovrà determinarsi dentro la cornice culturale della ospitalità. Un conto è ricevere un malato da ricoverare e un conto è ricevere un malato da ospitare.

Il Patto sarà un documento firmato dal Sindaco di Prato in rappresentanza della Comunità, dal Direttore generale dell’ospedale di Prato e dai Direttori delle altre istituzioni sanitarie pubbliche e private del territorio pratese. Il Patto sarà un impegno sottoscritto, formale, che esprime un consenso politico, un accordo che non può essere ignorato e che dura nel tempo. I contenuti si determinano a partire dai pensieri dei cittadini sul “morire bene” raccolti durante le assemblee pubbliche di questi mesi, e dai pensieri degli operatori espressi durante i percorsi formativi che il Patto richiede.

Il Patto si declina in ciascuna struttura di cura attraverso un codice deontologico di servizio, dove saranno trascritte le aspettative dei cittadini nei confronti dei professionisti della cura e le aspettative dei professionisti nei confronti dei cittadini che cureranno; una sorta di documento su doveri e diritti degli uni e degli altri rispetto alla buona morte.

Queste aspettative verranno negoziate nel momento del ricovero dal tutor per l’accoglienza ospitale, infermiere/medico specificamente formati, e malato. Quanto negoziato verrà sottoscritto dal professionista e dal malato, messo in cartella clinica e verificato in itinere e alla dimissione, e possibilmente integrato nel fascicolo elettronico, come prodotto relazionale e quindi conoscenza trasmissibile nelle diverse fasi del processo di cura: preliminare, liminare e post-liminare, anche per l’elaborazione del lutto.

Grazie a tutti i cittadini che finora ci hanno supportato partecipando in ogni modo.

Marcella Gostinelli

10 aprile 2024
© Riproduzione riservata

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