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Covid. Istat: “Nella seconda ondata il clima familiare resta positivo, ma per 1 italiano su 5 peggiorata la situazione economica”


Presentati i risultati dell’indagine condotta durante la seconda ondata epidemica (tra dicembre 2020 e gennaio 2021) per studiare i comportamenti e le opinioni dei cittadini a quasi un anno di distanza dall’inizio dell’emergenza sanitaria. Più di 3 cittadini su 4 hanno scelto parole di significato positivo per descrivere il clima familiare durante la seconda ondata epidemica, solo l’8,4% ha scelto termini di accezione negativa. Il 50,5% ritiene che la situazione economica del Paese peggiorerà. L’INDAGINE

26 APR - Più di 3 cittadini su 4 hanno scelto parole di significato positivo per descrivere il clima familiare durante la seconda ondata epidemica, solo l’8,4% ha scelto termini di accezione negativa.
Più di un quinto della popolazione (22,2%) ha avuto difficoltà nel far fronte ai propri impegni economici (pagare mutuo, bollette, affitto, spese per i pasti, etc.), il 50,5% ritiene che la situazione economica del Paese peggiorerà. Questi sono alcuni dei risultati dell’indagine condotta dall’Istat durante la seconda ondata epidemica (tra dicembre 2020 e gennaio 2021) per studiare i comportamenti e le opinioni dei cittadini a quasi un anno di distanza dall’inizio dell’emergenza sanitaria. 
 
Giornate difficili, seppur meno rispetto al primo lockdown
Le parole che i cittadini hanno scelto di utilizzare per descrivere le giornate (per la precisione quella precedente l’intervista) durante la seconda ondata epidemica confermano le difficoltà affrontate nel periodo. Solo il 34,1% ha utilizzato parole di accezione positiva, il 44,7% si è espresso negativamente e il 21,2% in termini né negativi né positivi.
 
La situazione è tuttavia migliorata nettamente rispetto al lockdown di aprile 2020, quando il 56,9% si era espresso con giudizi negativi e soltanto il 20,6% positivamente.
 
Le parole con segno più utilizzate con maggior frequenza per descrivere la giornata sono: “tranquilla” (pari al 38,2% delle parole positive, 23,0% ad aprile 2020) e “serena” (pari al 15,2% delle parole positive, 6,7% ad aprile 2020).
 
Tra le parole di segno opposto più usate compaiono: “noiosa” (17,2%, 21,5% ad aprile 2020), “monotona” (8,9%) e lunga (7,2%). L’abitudine a convivere con la situazione determinata dall’emergenza sanitaria e la minore rigidità delle regole di comportamento anti contagio hanno molto probabilmente contribuito alla riduzione del sentiment della noia che in fase di primo lockdown è stata particolarmente sentita e diffusa.
 
“Normale” (43,6%), “lavorativa” (12,4%), “uguale” (7,8%) sono gli aggettivi usati più frequentemente, non riconducibili univocamente a significati positivi o negativi. Sono termini che rimandano perlopiù a una normalità recuperata rispetto ad aprile 2020, quando per esempio la parola “normale” rappresentava il 37,8% di quelle né positive né negative e la parola “lavorativa” solo il 3,6%, anche in conseguenza della sospensione di molte attività produttive.
 
Clima familiare positivo: per oltre 9 persone su 10 i rapporti sono buoni o ottimi
Riguardo le relazioni con i familiari conviventi, più di tre cittadini su quattro (76,2%) hanno scelto parole di significato positivo, l’8,4% termini di accezione negativa, il 14,9% termini non classificabili come positivi o negativi. Questa distribuzione ricalca quella emersa in fase di primo lockdown, a conferma di una diffusa tenuta delle relazioni familiari. Non si segnalano significative differenze in base a genere e classe di età.
 
“Sereno” (27,6%), “buono” (18,8%), “tranquillo” (12,2%) sono i lemmi usati più frequentemente nell’ambito delle parole positive. Tra le negative spiccano i termini “teso” (13,7%), “preoccupato” (11,1%), “agitato” (5,6%). Tra quelle non classificabili domina la parola “normale” (68,4%), seguita da lemmi di significato affine (“solito” 9,2%, “uguale”, 5,3%).
 
Al di là dei termini utilizzati, la resilienza delle relazioni familiari è confermata dai giudizi espressi dai cittadini. Il 93,1% definisce buoni (49,1%) o ottimi (44,0%) i rapporti con i familiari conviventi, per il 6,7% non sono buoni né cattivi mentre solo lo 0,3% li definisce cattivi o pessimi. Questo giudizio positivo è trasversale alle classi di età, al territorio e alla tipologia familiare. Anche in questo caso, i dati restituiscono una fotografia quasi perfettamente sovrapponibile a quella scattata in pieno primo lockdown.
 
La convivenza, spesso forzata a causa delle limitazioni negli spostamenti, nella gran parte dei casi non ha prodotto effetti sul clima familiare che è rimasto inalterato anche in questo difficile periodo (86,3%). Per un cittadino su 10 è persino migliorato, anche se la quota è leggermente più bassa di quella rilevata ad aprile 2020 (15,6%).
 
Le relazioni tra conviventi sono invece peggiorate per il 3,2% della popolazione (2,6% ad aprile 2020). Si tratta di un milione di persone per le quali la pandemia ha messo a dura prova la convivenza all’interno delle mura domestiche. Anche in questo caso non si rilevano differenze significative tra i vari segmenti della popolazione.
 
In aumento il tempo dedicato alla famiglia
Le regole vigenti durante la seconda ondata pandemica hanno ridotto gli spostamenti e in generale le attività fuori casa. Ciò ha significato anche riorganizzare i propri tempi e ridistribuirli tra le varie attività. Sebbene per la gran parte dei cittadini il tempo dedicato alla famiglia sia rimasto lo stesso (70,5%), più di uno su quattro (28,3%) è riuscito a incrementare quello dedicato ai propri familiari mentre solo per l’1,0% è diminuito.
 
Sono soprattutto le persone fino ai 44 anni d’età ad aver ricavato più tempo da dedicare alla famiglia, in particolare gli uomini tra i 35 e i 44 anni (47,8%). Per effetto dello smart working e della sospensione di alcune attività lavorative ciò è stato possibile per alcuni lavoratori, più che per altri. Ad esempio, la quota di chi ha dedicato più tempo alla famiglia è del 39,3% tra gli occupati del Commercio mentre scende al 10,9% tra i lavoratori della Sanità che, nel 9,1% dei casi, hanno dovuto ridurlo.
 
Il 22,0% di chi ha dedicato più tempo ai familiari considera migliorato il clima familiare; tale quota scende al 5,7% tra quanti non hanno modificato la quantità di tempo destinato alla famiglia.
 
Per otto persone su 10 il rapporto di coppia va bene come prima della pandemia
Anche il quesito sui cambiamenti eventualmente indotti dalla pandemia sulla vita di coppia fa emergere un quadro rassicurante. Per oltre i tre quarti delle persone in coppia (77,2%), durante la seconda ondata nulla è cambiato, il rapporto va bene come prima; per il 12,8% i cambiamenti sono di segno positivo, poiché il rapporto è migliorato. Sono soprattutto gli uomini in coppia tra i 45 e i 54 anni a riportare un miglioramento del rapporto (25,4% a fronte del 14,5% tra le donne della stessa età).
 
Il rapporto di coppia va bene come prima per il 90,1% delle persone in coppia senza figli conviventi e per il 69,5% delle coppie con figli conviventi. In quest’ultimo caso, però, è più elevata la quota di quanti riportano un miglioramento del rapporto (17,8% a fronte del 4,6% di chi non vive con i figli).
In un quadro complessivamente positivo, va tuttavia segnalato che per poco meno di una persona in coppia su 10 la situazione appare critica o perché il rapporto di coppia era ed è rimasto difficile (4,9%) o perché è peggiorato, durante l’emergenza sanitaria, a causa di maggiori incomprensioni (2,5%) se non persino di forti e più frequenti litigi (2,1%). Si tratta di oltre due milioni di persone che vivono in contesti familiari difficili (900mila uomini e circa un milione e 200mila donne): più della metà hanno visto peggiorare il rapporto di coppia a seguito dell’emergenza sanitaria. A riportare una situazione difficile o peggiorata in fase di pandemia sono in particolare le donne tra 25 e 34 anni (22,8% a fronte del 9,3% degli uomini della stessa classe di età).
 
Rispetto alla prima ondata in aumento le situazioni familiari più difficili
Che in famiglia si respiri un clima prevalentemente sereno è confermato anche dalle risposte fornite al quesito che rileva il timore di dire o fare qualcosa quando ci si trova in famiglia. L’85,1% ha poco e nessun timore. Tuttavia, anche in questo caso, emergono situazioni critiche per il 14,9% delle persone: l’11,9% dichiara di avere abbastanza paura di dire o fare qualcosa, il 3% invece di avere molta paura. Si tratta di oltre 4 milioni e 700mila persone senza significative differenze di genere. Rispetto a quanto rilevato ad aprile 2020, la quota di persone che esprimono molto o abbastanza timore è passata dal 9,1% al 14,9% mentre è scesa dal 74,0% a 62,8% la quota di quanti dichiarano di non avere alcun timore.
 
La quota di chi esprime timore è più elevata tra gli anziani (21,9% tra quanti hanno 75 anni o più: 25,5% se donne) e tra i giovani di 25-34 anni (18,6%). Anche a livello territoriale emergono differenze, con valori più elevati al Nord (22,2% contro il 10,8% del Mezzogiorno e il 6,3% del Centro). Questo indicatore, pur non interpretabile univocamente come spia di una conflittualità familiare, contribuisce a identificare contesti familiari a rischio. Per esempio, chi esprime timori ha in genere una propensione alla scelta di termini negativi per descrivere il clima familiare e la giornata. Infatti, il 25,4% di quanti hanno molto o abbastanza timore di esprimersi in famiglia usa termini di accezione negativa per descrivere i rapporti con i familiari conviventi, a fronte del 5,2% di chi questi timori non li dichiara.
 
Nei contesti familiari meno sereni, se la situazione pandemica ha modificato la qualità delle relazioni familiari lo ha fatto in positivo per alcuni e in negativo per altri. Tra quanti hanno timori nell’esprimersi liberamente in famiglia, il 15,5% considera migliorato il clima in fase di pandemia (a fronte del 9,4% di chi questi timori non li ha), il 9,5% li considera invece peggiorati (a fronte del 2,1% di chi vive in contesti familiari più sereni). Va tuttavia notato che in quest’ultimo caso il rapporto tra le due percentuali è decisamente maggiore (4 a 1), a segnalare un più probabile peggioramento nelle situazioni già critiche.
 
Oltre metà della popolazione ha ridotto gli incontri con i familiari non conviventi
L’emergenza sanitaria ha cambiato profondamente le relazioni sociali e le modalità messe in atto per tenerle vive. Più della metà della popolazione (56,8%) ha ridotto gli incontri con i familiari non conviventi, il 36,6% ha incrementato la frequenza dei contatti telefonici mentre per il 28,1% nulla è cambiato. Residuali le quote di quanti hanno incrementato gli incontri (1,9%) e ridotto i contatti telefonici (4,7%). Ad avere ridimensionato i contatti e le relazioni con i parenti sono soprattutto le persone fino ai 44 anni  (67,9% tra i 35-44enni: 60,6% tra gli uomini e 75,2% tra le donne) mentre tra gli ultra-settantaquattrenni si rileva la quota più elevata di quanti non hanno visto modifiche nelle loro relazioni parentali (42,1%).
 
Sul territorio, la frequenza degli incontri si è diradata soprattutto nel Mezzogiorno (62,9% contro circa il 53,0% nelle altre zone del Paese). I contatti telefonici sono aumentati più al Nord e nel Mezzogiorno, circa il 40,0% contro il 21,5% del Centro, dove invece è più elevata la quota di quanti non hanno modificato le proprie abitudini relazionali con i parenti (40,9% contro circa il 25,0% nelle altre zone del Paese).
 
I contatti telefonici hanno aiutato a tenere vive le relazioni familiari: il 63,2% della popolazione ha sentito i parenti il giorno precedente l’intervista, con valori più elevati tra le donne (il 67,4% contro il 58,6% degli uomini) e una persona su cinque ha usato le videochiamate per tenersi in contatto con loro. Sebbene per la gran parte dei cittadini (64,5%) non sia cambiata la frequenza con cui sentire telefonicamente i parenti, il 25,7% ha incrementato il tempo dedicato a questa attività (34,4% tra le donne di 65-74 anni) e solo per il 6,6% il tempo si è ridotto.
A livello territoriale sono i cittadini del Mezzogiorno a dichiarare il maggior incremento del tempo dedicato ai contatti telefonici (33,4% a fronte del 24,4% del Nord e del 15,6% del Centro) mentre i residenti nelle regioni del Centro hanno modificato meno i propri comportamenti (stesso tempo il 73,8%).
 
Sei persone su 10 vedono gli amici con minore frequenza
Anche gli incontri con gli amici hanno subito una drastica diminuzione. Il 61,4% dei cittadini vede gli amici con minore frequenza, il 36,7% li sente più frequentemente. Al contrario, per quasi un cittadino su quattro (23,4%) nulla è cambiato. Solo l’1,3% ha aumentato gli incontri con gli amici mentre il 5,9% ha ridotto i contatti telefonici.
 
Come nei rapporti con i parenti, sono soprattutto le persone fino ai 44 anni ad avere modificato le proprie abitudini riducendo la frequenza degli incontri (71,1% tra 25 e 34 anni) e aumentando la frequenza delle telefonate (50,3% tra 25 e 34 anni). I più anziani si confermano tra i soggetti le cui relazioni amicali, oltre che parentali, hanno subito meno variazioni a seguito della pandemia: nulla è cambiato per il 41,5% degli ultrasettantaquattrenni.
 
Anche le relazioni con gli amici sono diminuite soprattutto nel Mezzogiorno (69,7% a fronte del 56,0% del Nord e del 59,7% del Centro) e compensate da una maggiore frequenza dei contatti telefonici (42,9% contro il 38,9% del Nord e il 20,8% del Centro). I cittadini residenti nel Centro Italia si confermano più numerosi tra quanti non hanno dovuto modificare le proprie abitudini relazionali con gli amici (33,9% a fronte del 16,9% del Mezzogiorno).
 
 
Restano poche le visite fatte e ricevute ma in aumento rispetto ad aprile
Una persona su quattro (26,0%) ha fatto visita a persone per portare loro la spesa, i farmaci o per fare semplicemente compagnia ma solo il 2,7% lo ha fatto tutti i giorni. Questa attività è prerogativa soprattutto delle persone appartenenti alle classi di età centrali (circa il 30%), in particolare  delle donne tra i 45 e i 54 anni (41,0%); più bassi e inferiori al 20,0% i valori tra gli anziani. Non si osservano invece differenze significative a livello territoriale.
 
Il 46,2% di chi è uscito, lo ha fatto per andare a trovare genitori o suoceri, il 19,2% per fare visita a persone anziane. Il 25,4% ha fatto visita ad amici, il 21,8% è andato a trovare i vicini.
I dati appena descritti confermano grande cautela nei comportamenti adottati, sebbene la percentuale di chi ha fatto visita a parenti o amici sia aumentata rispetto al periodo del primo lockdown (19,1%). Anche il profilo dei destinatari della visita definisce meglio il senso degli incontri, per lo più mirati a fornire supporto alle persone anziane (genitori/suoceri, etc.).
 
Oltre nove persone su 10 possono contare sull’aiuto di qualcuno in caso di necessità
Le regole di comportamento e le limitazioni negli spostamenti hanno messo in evidenza l’importanza delle reti informali di aiuto, soprattutto in caso di necessità. Il quadro che emerge dai dati è sicuramente positivo. L’83,6% dei cittadini può contare, in caso di necessità, sull’aiuto di parenti non conviventi, l’81,9% su amici, l’83,6% su un vicino di casa (il 43,7% su una persona/famiglia e il 39,9% su più persone/famiglie).
 
Oltre nove persone su 10 possono contare sull’aiuto di qualcuno che sia un parente, un amico o un vicino. Tuttavia, l’8,9% non ha questa possibilità. La quota varia dal 4,1% nell’ambito dei 25-34enni all’11,7% di chi ha tra i 45 e i 54 anni; dal 5,6% nel Centro a una quota quasi doppia nel Nord (10,9%).
 
La rete amicale è più solida nelle classi di età più giovani: può contare su uno o più amici il 94,8% degli adulti di 25-34 anni a fronte del 70,6% dei 65-74enni. Anche le reti di vicinato sono un sostegno soprattutto per i più giovani. Sempre tra i 25-34enni solo il 9,9% non può contare sull’aiuto di almeno un vicino, quota che supera il 20,0% dai 65 anni in su.
 
Un cittadino su 10 ha avuto bisogno di aiuti economici
Far fronte alle spese della vita familiare o relative all’attività lavorativa non è stato un problema per la grande maggioranza della popolazione (88%). Tuttavia, durante la seconda ondata epidemica il 12% degli intervistati (o un membro della sua famiglia) ha dovuto fronteggiare criticità nel bilancio familiare tali da ricorrere ad aiuti economici (prestiti, sussidi pubblici o altro) o alla vendita di beni di proprietà.
 
Nello specifico, l’8,6% della popolazione ha fatto richiesta di aiuti pubblici (bonus vari, reddito di emergenza, etc.), il 3,6% ha ricevuto denaro in regalo da parenti o amici, il 2,6% ha chiesto prestiti a parenti o amici, l’1,7% si è rivolto agli istituti di credito, lo 0,7% ha messo in vendita beni di proprietà (gioielli, automobili, appartamenti, etc.).
 
Emergono differenze in base all’età e al territorio. Per esempio, ad avere richiesto aiuti pubblici è il 15,5% dei 25-34enni, a fronte dello 0,5% degli ultrasettantaquattrenni. Anche i doni in denaro hanno riguardato soprattutto i più giovani: 9,3% tra i 25 e i 34 anni, 1,6% tra i più anziani.
Per tutte le tipologie di aiuto, la percentuale di chi ne ha avuto bisogno è più elevata nel Mezzogiorno, dove il 12,8% dei cittadini ha ottenuto aiuti pubblici (contro il 4,1% del Nord) e il 6,3% ha ricevuto aiuti in denaro (da non restituire) (2,4% nel Centro e 2,1% nel Nord).
Tra gli occupati sono soprattutto i lavoratori del Commercio ad avere avuto bisogno di aiuti (21,8%): il 4,7% ha chiesto prestiti bancari, il 17,0% aiuti pubblici.
 
Complessivamente hanno fruito di questi aiuti oltre 6 milioni di persone; il 68% ha chiesto un solo aiuto, il 22,5% ne ha chiesti due e il rimanente 9,5% almeno tre.
 
In generale, hanno avuto bisogno di aiuti soprattutto i giovani tra i 25 e i 34 anni (22,1%), molto meno gli anziani (3,1% degli ultrasettantaquattrenni). Tra le donne di 35-44 anni il 21,3% ha fatto ricorso al almeno un tipo di aiuto, contro il 10,1% degli uomini della stessa classe di età. Anche a livello territoriale le differenze sono significative: la quota di chi è ricorso ad aiuti va dal 6,6% nel Nord, al 13,7% nel Centro, al 18,4% nel Mezzogiorno.
 
La percentuale di chi ha chiesto aiuti si attesta al 17,3% tra le famiglie di almeno 3 componenti, al 6,7% tra i single, al 10,3% per le famiglie di due componenti. Avere un titolo di studio elevato ha rappresentato un fattore protettivo in tutte le classi di età: ad esempio tra i 25-34enni ha chiesto almeno un aiuto il 47,5% di chi ha un titolo di scuola dell’obbligo, il 22,5% dei diplomati e l’8,7% dei laureati.
 
Un quinto della popolazione non è riuscito a fare fronte a impegni economici
A seguito dell’emergenza sanitaria una parte della popolazione ha incontrato difficoltà nel far fronte ai propri impegni economici come, ad esempio, pagare il mutuo, le bollette, l’affitto, etc. Il 13,4% degli intervistati (o un loro familiare convivente) ha avuto problemi col pagamento delle bollette (l’11,8% ha dovuto rimandarne il pagamento, il 9,1% non è riuscito a pagarle), il 16,5% ha dovuto rinunciare alle vacanze, il 13,9% non è riuscito a fare fronte a una spesa imprevista, il 6,3% non è riuscito a pagare le rate di un mutuo o di un prestito o le spese necessarie per i pasti mentre il 6,7% non è riuscito a pagare l’affitto.
 
Complessivamente si tratta di più di 11 milioni di persone (22,2%) e tra questi oltre tre milioni hanno incontrato problemi nell’affrontare le spese alimentari durante la seconda ondata. Le difficoltà si sono spesso sovrapposte, la maggior parte di chi ha avuto problemi non è riuscita a fronteggiare almeno due impegni economici (76,2%), il 34,7% (pari a tre milioni e 800mila persone) almeno quattro.
 
La quota di chi ha avuto almeno uno di questi problemi diminuisce dopo i 55 anni: si passa dal 28,5% dei 35-54enni al 14,6% degli ultrasessantaquattrenni. Anche le situazioni più critiche per la molteplicità dei problemi incontrati riguardano soprattutto le persone fino a 54 anni e meno i più anziani: il 4,3% delle persone di 65 anni e più ha affrontato quattro o più difficoltà economiche ma la percentuale raddoppia nelle altre classi di età. Anche in questo caso il titolo di studio elevato rappresenta un fattore protettivo: ha avuto almeno uno dei problemi economici considerati il 28% delle persone con licenza media rispetto al 15,6% dei laureati.
 
Nel Mezzogiorno sono presenti le situazioni più critiche: ha avuto problemi il 30,7% dei cittadini a fronte del 18,4% del Nord e del 17% nel Centro. Ed è sempre nel Mezzogiorno che la concomitanza di più problemi presenta la frequenza più elevata: il 12,2% ha dovuto affrontare almeno quattro delle difficoltà economiche considerate, ovvero una quota doppia rispetto al Nord (6,0%) e tre volte quella del Centro (4,1%).
 
Tutte le difficoltà economiche sono più diffuse nelle regioni del Mezzogiorno: quasi un cittadino su quattro non è riuscito ad andare in vacanza (13,2% nel Centro), uno su cinque non è riuscito a far fronte a una spesa imprevista (6,2% nel Centro); il 14,4% non è riuscito a pagare le bollette (7,1% nel Nord, 4,4% nel Centro). Circa un cittadino su 10 non è riuscito a pagare le rate di un mutuo, di un prestito o l’affitto; un’analoga quota di persone non è riuscita a sostenere le spese dei pasti. I valori si dimezzano nelle regioni del Nord e soprattutto in quelle del Centro, area in cui tutte le problematiche presentano una frequenza minore rispetto alle altre zone del Paese.
 
Condizione economica familiare in peggioramento per un cittadino su 5
Per più di tre cittadini su quattro la pandemia non ha avuto conseguenze sulla situazione economica familiare. Tuttavia, per il 20,5% le condizioni economiche sono peggiorate rispetto al periodo precedente l’emergenza sanitaria, soprattutto tra le persone di 25-44 anni (26,7%), meno tra gli anziani (12% dopo i 64 anni). Tra gli uomini di 25-34 anni si arriva al 31,6% (21,6% tra le donne della stessa classe di età) mentre è decisamente più contenuta (2,8%) la quota di quanti hanno dichiarato un miglioramento delle condizioni economiche familiari.
 
Ancora una volta nel Mezzogiorno si registra il peggioramento più frequente (24,7% a fronte del 16,6% del Centro) e il miglioramento riguarda appena l’1,2% delle persone contro il 3,6% rilevato al Nord.
 
In tutte le classi età, la percentuale di quanti hanno visto peggiorare la propria condizione economica è minore tra i laureati rispetto alle persone con titolo di studio più basso. Ad esempio, tra i 35-44enni si va dal 38,5% di quanti hanno la licenza media al 18,7% dei laureati.
 
La sospensione di alcuni settori lavorativi contribuisce a spiegare le differenze tra gli occupati. Dichiara un peggioramento il 42,0% dei lavoratori del Commercio, il 31,3% dei lavoratori del settore Agricoltura e il 26,2% di quelli dell’Industria, contro il 6,0% di chi è occupato in settori quali l’Istruzione e la Sanità
 
Per la metà della popolazione la situazione economica del Paese peggiorerà
La gran parte dei cittadini (76,5%) non prevede cambiamenti della situazione economica del nucleo familiare nel breve periodo (tre mesi). Il 12,9% ritiene che peggiorerà, il 6,1% che andrà a migliorare. I più pessimisti sono gli uomini tra i 25 e i 34 anni (20,5%), le donne tra 65 e 74 anni (20,3%) e i residenti nel Mezzogiorno (17,3% a fronte dell’11,8% del Nord e dell’8,2% del Centro). Anche gli occupati che hanno visto peggiorare la propria condizione economica sono più pessimisti: per il 26,1% dei lavoratori del Commercio ci sarà un peggioramento contro il 4,8% di chi lavora nel settore Sanità e il 2,8% dei dipendenti della PA.
 
Il quadro peggiora decisamente se si analizzano le opinioni in merito all’evoluzione della situazione economica del Paese nel breve periodo (tre mesi). Per la metà dei cittadini (50,5%) la situazione è destinata a peggiorare, resterà stabile per il 34,2% mentre solo il 7,9% confida in un miglioramento.
Non emergono differenze significative in base alle caratteristiche individuali mentre a livello territoriale i pessimisti sono più numerosi al Nord e nel Mezzogiorno (rispettivamente 50,5%, e 54,3% a fronte del 44,4% del Centro). I residenti nel Centro Italia, più degli altri, ritengono che non vi saranno a breve cambiamenti significativi della situazione economica (44,8% contro il 27,4% del Mezzogiorno e il 34,5% del Nord). 
 
Tra gli occupati i più preoccupati dell’evoluzione della situazione economica nel nostro Paese sono i lavoratori della Sanità: il 71,5% prevede un peggioramento.

26 aprile 2021
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