“Chi inquina paga”. Non basta cedere l’azienda per liberarsi dalla responsabilità: una sentenza storica del Consiglio di Stato
di C.Gerardis, L.Lucentini, P.Comba, R.Crebelli e I.Iavarone
I fatti riguardavano un inquinamento industriale, protrattosi per decenni (dagli anni ’60 del ‘900 ai primi anni 2000), in un territorio di straordinario pregio ambientale, in Abruzzo, nell’area di Bussi sul Tirino in provincia di Pescara. La sentenza si è posta il problema delle successioni societarie nel tempo, declinando il principio “chi inquina paga” in modo sostanziale e tale da renderlo effettivo: non basta cedere l’azienda o un ramo di essa per liberarsi da responsabilità
11 APR - La tutela dell’ambiente, come presidio essenziale di salute, è un principio universalmente riconosciuto nella comunità scientifica, nella politica e nell’opinione pubblica, trasposto da tempo anche a fondamento della normativa europea sulla responsabilità ambientale: risale agli anni 2000 l’introduzione del principio “chi inquina paga”, già sancito nei consideranda della nuova normativa sulla tutela delle acque (dir 2000/60/CE) e ribadito nella Direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 aprile 2004, sulla responsabilità ambientale; un essenziale strumento giuridico per prevenire e rispondere a eventi di contaminazione, anche delle acque, in relazione al tema dell’esposizione a rischi sanitari della popolazione.
L’applicazione di questo principio, in Italia, è stata tuttavia, negli anni, costantemente disattesa, in concreto e guardando agli esiti di molte vicende processuali: ciò per la difficoltà di adattare efficacemente un quadro normativo in continua evoluzione, sui temi ambiente-salute, a fenomeni inquinanti nella maggior parte dei casi (quelli più gravi) prolungati o storici.
La lunghezza del processo, sempre articolato in diversi gradi di giudizio; l’abilità delle strategie difensive delle aziende coinvolte (spesso multinazionali dotate di risorse importanti e dunque di legali di primissimo ordine, anche in campo accademico, e di consulenti tecnici di chiara fama internazionale); la circostanza dei mutamenti societari, aziendali e immobiliari, con impianti industriali che passano di mano da un soggetto all’altro, nel corso degli anni; la complessità delle realtà societarie con conseguente vera e propria “dissipazione” delle responsabilità: una congerie di ostacoli per il raggiungimento dell’obiettivo della individuazione del soggetto tenuto a intervenire per risarcire il danno, bonificare l’ambiente, ripristinare l’equilibrio dell’ecosistema anche al fine di proteggere la salute pubblica.
Innumerevoli azioni legali per vasti fenomeni di inquinamenti perpetrati nel tempo, nel corso del secolo scorso, nel nostro Paese, si sono quasi sistematicamente concluse con la frustrazione delle aspettative per le parti lese: soprattutto per gli aspetti legati alla salute delle popolazioni direttamente colpite dai fenomeni di inquinamento. E hanno fatto constatare, non senza una sgradevole percezione di inutilità di ogni sforzo, la dispersione di risorse da parte delle autorità sanitarie e ambientali, degli enti territoriali, del mondo dell’associazionismo. Tutto ciò generando anche ingenti costi per la collettività, chiamata a sostenere difficili e estese azioni di risanamento nei territori a carico dello Stato (sono oggi 41 i Siti d’Interesse Nazionale – SIN, interessati da procedimenti di bonifica o messa in sicurezza).
È anche evidente che una situazione come quella descritta, di sostanziale impunità, abbia uno scarso potere deterrente nei confronti di attività industriali e più in generale economiche non etiche, se non illecite.
Una rivoluzione “culturale”, meritevole di essere segnalata con giusto entusiasmo, travalicante anche i confini della dottrina giuridica (e che ci piace leggere anche in parallelo all’Agenda per lo Sviluppo Sostenibile -SDGs ONU 2030), può ascriversi proprio alla conclusione di un giudizio amministrativo, collegato a una serie di articolate vicende giudiziarie (penali e, oggi, anche civili) avviate più di 10 anni fa: tale complesso iter processuale ha avuto ad oggetto un inquinamento industriale, protrattosi per decenni (dagli anni ’60 del ‘900 ai primi anni 2000), in un territorio di straordinario pregio ambientale, in Abruzzo, nell’area di Bussi sul Tirino in provincia di Pescara.
Lo stabilimento chimico lì insediato ha diffuso, tra l’altro, contaminanti negli acquiferi sotterranei, per di più captati da pozzi di una rete acquedottistica, interessando quasi metà della popolazione abruzzese, esposta ad acque potenzialmente non sicure per moltissimi anni e senza averne minimamente contezza.
La sentenza n. 2301/2020 del Consiglio di Stato in materia di responsabilità per danno ambientale ha un contenuto importante per diversi aspetti, che la rendono una pietra miliare del diritto ambientale moderno: innanzitutto afferma chiaramente come il danno all’ambiente è ab origine ingiusto, è la nostra Costituzione a dirlo, ben prima della legislazione speciale degli anni ‘80 e successivi (su discariche e bonifiche).
Perché questa affermazione è essenziale, anche in un discorso che coinvolga - come necessariamente deve essere - la valenza sanitaria degli eventi di contaminazione? La ragione è proprio legata al richiamo fatto alla nostra Carta fondamentale, dove si trova una norma, l’articolo 32, che tutela la salute come diritto fondamentale dell’uomo e della collettività.
Ebbene, questa disposizione, sin dagli anni ’70, è il fulcro di una giurisprudenza avanzata ed evolutiva sul danno ambientale: ma nella decisione del Consiglio di Stato è fatto un nitido collegamento al tema degli inquinamenti storici.
Dunque, un cambio di passo, rispetto a ogni dubbio applicativo del passato: proteggere l’ambiente dalle aggressioni di ogni forma di inquinamento equivale a proteggere la salute dell’uomo. Per questo, ogni forma di aggressione anche risalente molto indietro nel tempo, per esempio realizzata negli anni ‘60, quando ancora non si era formata compiutamente una coscienza ambientale ma purtuttavia esistevano strumenti giuridici già adeguati per fronteggiarla, è illecita e produttiva di diritto al risarcimento del danno.
Poiché spesso queste condotte provengono dall’industria, la sentenza in discorso si pone il problema delle successioni societarie nel tempo, declinando il principio “chi inquina paga” in modo sostanziale e tale da renderlo effettivo: non basta cedere l’azienda o un ramo di essa per liberarsi da responsabilità.
Questo chiarimento, che sembrerebbe banale, era invece essenziale, poiché spesso nelle ipotesi di inquinamenti storici il problema è stato ed è proprio individuare il soggetto giuridico cui legittimamente chiedere gli interventi di bonifica e di ripristino ambientale.
C’è un valido motivo per ritenere che la recente pronuncia del giudice amministrativo costituisca per il futuro una svolta reale: contiene affermazioni che potranno essere utilizzate in molte altre situazioni per fare emergere illecite contaminazioni risalenti nel tempo ed i veri responsabili che, in giusta applicazione del principio “chi inquina paga”, sono obbligati a ripristinare lo status quo ante e a compensare la popolazione ed il territorio dell’essere stati privati di un ambiente sano.
Fondamentale in questa storia di successo processuale e della collettività è stata la sinergia e competenza delle strutture istituzionali, coordinate dall’Avvocatura dello Stato, per dimostrare sulla base di evidenze inoppugnabili come la compromissione dell’ambiente comportasse un impatto sanitario diretto.
L’intervento dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e dell’Istituto superiore di sanità (ISS), enti pubblici di ricerca rispettivamente in materia ambientale e di sanità pubblica, l’apporto scientifico dell’Università di Bologna, i dati raccolti dall’ARTA Abruzzo, sono stati tutti pezzi essenziali di un puzzle ricostruttivo, che ha dato ai giudici elementi per valutare le complesse variabili geologiche e i danni ambientali dell’inquinamento.
In particolare, l’ISS, approfondendo le relazioni ambiente-salute, valutò come “
la serie di azioni poste in essere nei siti di interesse, specificamente nel sito industriale e nella megadiscarica ha pregiudicato, con una notevole sinergia, tutti gli elementi fondamentali che presiedono e garantiscono la sicurezza delle acque, determinando così un pericolo reale e concreto per la salute degli utilizzatori e consumatori delle acque cui è anche mancata ogni informazione rispetto ai potenziali rischi per la salute associati al consumo di tali acque e cui pertanto era preclusa la possibilità di adottare misure specifiche di prevenzione e mitigazione di tali rischi”.
Potremmo essere molto ottimisti per il futuro, se si comprendesse concretamente l’importanza, in situazioni come quella della Val Pescara in Abruzzo, e di molte altre in Italia (ferite ancora aperte del nostro territorio e della salute dei cittadini), di svolgere indagini epidemiologiche con criteri scientifici per stabilire il nesso tra determinati fenomeni di contaminazione e certe patologie e quanto incida sul benessere delle persone e dell’ecosistema la presenza di una fonte inquinante, soprattutto se ciò avvenga per molto tempo ed in assenza di informazione adeguata.
Si potrebbe cominciare proprio dall’Abruzzo e dalla Val Pescara: e questa iniziativa avrebbe un fondamentale valore scientifico prima che giuridico nella ricostruzione di ciò che è avvenuto all’ambiente e alla salute delle persone, in decenni di esercizio dell’industria chimica, senza adeguata applicazione del principio di precauzione e di informazione.
Cristina Gerardis
Avvocato dello Stato
Luca Lucentini, Pietro Comba, Riccardo Crebelli, Ivano Iavarone
Istituto Superiore di Sanità
11 aprile 2020
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