Sul suicidio assistito dalla Fnomceo un buon compromesso
di Antonio Panti
La medicina ha progredito nell'idea di favorire la vita ma ormai è matura la necessità di una riflessione perché non solo la società ma i medici hanno coscienza che, dopo aver creato le condizioni di una sopravvivenza talora inaccettabile, non è etico abbandonare il paziente.
10 FEB - Il Consiglio Nazionale della Federazione degli Ordini dei Medici ha approvato un "indirizzo applicativo" dell'articolo 17 del vigente Codice Deontologico per adeguare la norma (il divieto di "effettuare o favorire atti finalizzati a provocare la morte" del paziente) al dettato della sentenza 242/19 della Corte Costituzionale.
Ritenendo che il
testo della FNOMCeO sia conosciuto e avendo partecipato ai lavori della Commissione Deontologica, mi permetto di inserirmi nella discussione che ne è nata.
Il Codice Deontologico rappresenta un compromesso tra diverse idee allo scopo di garantire ai cittadini un comportamento omogeneo e corretto dei professionisti per quanto attiene a atti non previsti dalle leggi. Il Codice non è un atto di fede né un libro sacro e non pone i medici al di sopra della Costituzione anche se deve garantire autonomia di giudizio alla professione (sentenza 249/19 della stessa Corte).
La sentenza della Corte (ma il dibattito è presente da anni all'interno della società) avrebbe dovuto costringere i medici a confrontarsi sia sul significato della moderna morte medicalizzata sia sull'approccio della professione alla fase terminale della vita nell'epoca dell'esasperazione tecnologica. Ragionevolmente la Federazione ha preferito, per l'immediato, dare indicazioni ai medici e agli Ordini, stante il contrato tra la norma deontologica e la sentenza della Corte di per sé già esecutiva.
Nelle sue linee essenziali il ragionamento della FNOMCeO è analogo a quello della Corte Costituzionale. Non vi sono ragioni per abrogare il 580 cp e neppure il 17 CD e ciò a tutela dei soggetti fragili, ma vi è motivo per dichiarare costituzionale il rispetto dell'autodeterminazione del paziente quando richiede non solo l'interruzione delle cure (legittimo in grazia della l-219/17) ma di congedarsi da una vita che non considera più tale per le sofferenze cui è costretto, un congedo che non può autonomamente attuare a causa delle sue condizioni.
Ma la questione è più complessa. La Consulta ha previsto una procedura attuativa del proposito suicidario per cui, nonostante i richiami ai contenuti e allo spirito della l.219/17, si travalica la singolarità della relazione tra medico e paziente per introdurre nella vicenda un ulteriore interlocutore, il SSN, incaricato di attuare una "verifica medica della sussistenza dei presupposti" della richiesta, di garantire l'offerta di cure palliative, di fornire assistenza psicologica verificando la libera volontà del paziente, di offrire il parere di un organo terzo, il comitato etico locale e, infine, di sorvegliare l'esecuzione dell'atto suicidario onde evitare possibili sofferenze.
E' chiaro, ma meglio precisarlo, che la Federazione non poteva che limitarsi al contrasto tra il divieto a favorire i propositi suicidari del paziente, posto dall'art.17 CD, e il comportamento del medico. Una questione che la Consulta ha superato in modo tranchant stabilendo che, non sussistendo un diritto a morire, non vi erano obblighi per il medico, che avrebbe deciso in coscienza se aiutare o no il paziente a dar corso alla sua richiesta.
Il che, mi sembra, non stabilisce un ambito "libero da leggi", né una libertà di fatto, ma sancisce l'esercizio di una libertà costituzionale, l'autodeterminazione del cittadino. Ne consegue che nessuno può essere impedito nell'esercizio di siffatta libertà, e questo è il senso del 219/17, mentre non può essere richiesto ad altri, il medico in questo caso, un comportamento attivo per soddisfarla. Questa incombenza, di garantire la fruizione concreta di un diritto di libertà, sembra spettare al SSN, onde evitare un vuoto di tutela.
Allora, se vi è piena legittimità per il medico di corrispondere alla richiesta suicidaria, la Federazione avrebbe dovuto tenere in maggior considerazione la coscienza dei medici, e sono molti, che vogliono tener fede all'impegno di assistere il paziente fino alla morte, quando questa sia l'unica cura ormai accettabile per lui.
La Federazione ha superato la primitiva idea che il suicidio assistito non riguardasse il medico, un'idea insostenibile, ma ha prospettato una disciplina gravata da una qualche ambiguità.
L'indirizzo applicativo dell'art. 17 CD, approvato dal Consiglio Nazionale, prevede che i Consigli di Disciplina degli Ordini valutino caso per caso e, ove ricorrano tutte le condizioni previste dalla Corte, dichiarino la non punibilità del medico.
Ora questa verifica è posta dalla Consulta in capo alle ASL, ma questo può essere argomento di scarso pregio quando si rivendica l'autonomia della valutazione deontologica. Tuttavia l'apertura di fatto del procedimento disciplinare complica eventi già di per sè complicati. Il medico non ha compiuto atti antigiuridici, ha soltanto rispettato l'autodeterminazione del paziente, il che è valore fondante anche del CD. Infine l'art. 653 cpp vieta agli enti pubblici l'azione disciplinare quando il fatto è passato in giudicato con la formula che il fatto non sussiste.
Vale la pena di ricordare che la Corte d'Assise di Milano ha assolto Marco Cappato perché, alla luce della sentenza 242/19 della Corte, il fatto (l'aiuto al suicidio fornito a DJ Fabo) non sussiste penalmente. La soluzione logica a mio avviso è la non assoggettabilità al giudizio disciplinare in questi casi che avrebbero rilevanza solo ove venissero alla luce illeciti compiuti dal medico.
Qualcuno ha notato questa contraddizione, cui si può ovviare sia col buon senso che con una successiva e più ampia riflessione sulla morte oggi. L'accusa posta alla FNOMCeO da una Associazione cattolica che tutto ciò possa rappresentare "una scorciatoia economicamente vantaggiosa" è francamente fuorviante e assai lontana dallo spirito cristiano con cui si sono espressi gli ultimi tre Pontefici.
Però il dibattito deve essere ripreso. Uno dei fondatori della medicina moderna, Xavier Bichat, apre il suo trattato con la celebre frase: "la vita è l'insieme delle funzioni che si oppongono alla morte". Ma Darwin pensa diversamente perché la sopravvivenza delle specie implica la morte. La medicina ha progredito nell'idea di favorire la vita ma ormai è matura la necessità di una riflessione perché non solo la società ma i medici hanno coscienza che, dopo aver creato le condizioni di una sopravvivenza talora inaccettabile, non è etico abbandonare il paziente.
Antonio Panti
10 febbraio 2020
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