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Salute mentale e carcere. Il dissolversi della psichiatria, dimentica delle sue origini

di Mario Iannucci e Gemma Brandi

Il recente parere del Comitato nazionale di bioetica e i commenti relativi espressi dalla Società italiana di psichiatria, sollevano molti interrogativi e altrettante perplessità. A partire dall’uso, a nostro avviso improprio ed errato dal punto di vista clinico, dei termini folli rei e rei folli

06 APR - Una precisazione è d’obbligo per non alimentare equivoci terminologici. Taluni giuristi insistono nel distinguere i folli rei dai rei folli: i primi sarebbero i malati di mente che commettono un reato in preda alla loro follia e vengono per questo riconosciuti incapaci di intendere e di volere e prosciolti; i secondi sarebbero le persone che, sane di mente al momento del reato, impazzirebbero in carcere.
 
Tali dizioni risultano del tutto errate dal punto di vista clinico: in oltre quaranta anni di attività psichiatrica in carcere non abbiamo mai visto nessuno diventare folle dopo la detenzione, ancora meno diventare folle a causa della detenzione.
 
La debolezza di questi distinguo è peraltro segnalata dalla difficoltà di definire nell’uno o nell’altro modo i “seminfermi di mente” (ex-art.89 cp). E ci sarebbe da chiedersi -poiché in questo caso conferente e rilevante- se il detenuto indiano che qualche giorno fa ha ucciso il suo compagno di cella nel carcere di Viterbo, sia da ritenere, secondo il distinguo di detti giuristi, folle reo o reo folle. Noi preferiamo attenerci alla logica e alla clinica nello scegliere la dizione reo folle, visto che di questi individui ci occupiamo -come qui stiamo facendo- dal vertice della commissione di un reato, altrimenti non si starebbe a fare questioni che risultano di lana caprina e alquanto confusive, se ne parlerebbe semplicemente come di folli.
 
Il recente documento del CNB[1] su “Salute Mentale e assistenza psichiatrica in carcere” ha suscitato, come era inevitabile, una notevole discussione sul tema.La Società Italiana di Psichiatria (SIP), ad esempio, ha avanzato, a proposito della impostazione e degli argomenti usati dal CNB, qualche timida riserva in un articolo pubblicato anche su QS[2].
 
Sembra trattarsi di una questione tangenziale e di importanza limitata rispetto ai temi “centrali” della odierna Salute Mentale, tutta presa da un fervore neuroscientifico che proietta questa disciplina nel fulgido avvenire del controllo neurofarmacologico (o addirittura neurofisiofarmacologico) delle condotte e/o del pensiero umano. Ci immaginiamo già tutti il prossimo trailer, che è lì dietro l’angolo: “Featuring psycho-neurosciences: the end of mental troubles, of dangerousness and of crimes”.
 
Di certo la nuova psiconeuroscienza porterà a compimento il percorso iniziato da Pavlov e Skinner, percorso che, sul versante “psico” delle terapie, ha quindi trovato nel dilagante comportamentismo (cognitivismo, sorry) una versione raffinata e up-dated. Il raffinamento delle tecniche psichiche punishment-reward d’altronde, come ognuno capisce, può tornare utilissimo al carcere, che ha lungamente maturato una sua autonoma esperienza al riguardo. Già: tema in apparenza desueto e periferico quello del rapporto fra salute mentale e carcere. Ma siamo proprio sicuri che sia così?
              
Un primo elemento per dubitarne è costituito dal fatto che, nonostante il tema non abbia di certo l’appeal dei trattamenti psicofarmacologici (il costo economico mensile della terapia con antipsicotici, ad esempio, scende difficilmente sotto i 300-500 €, ma spesso supera tali somme), tutti lo vogliono affrontare, anche quando non hanno alcuna competenza specifica.
 
Ci si aspetterebbe, infatti, che prendessero la parola gli operatori della salute mentale penitenziaria, quelli che si cimentano tutti i giorni con la difficile e rischiosa cura dei numerosissimi pazienti autori di reato. Invece questi operatori penitenziari e penitenti, come è avvenuto quasi sempre, tacciono, accettando di essere “rappresentati” da altri - fra i quali eminenti cattedratici magari impegnati in “dotte” trattazioni di tale materia - che però solo tangenzialmente o per brevi periodi si sono “sporcati le mani” con la clinica all’interno delle carceri.
 
Può darsi che sia stato chiesto qualche parere a degli “esperti”, ma di sicuro ci sarebbe da insospettirsi se i pareri fossero chiesti, ad esempio, a chi è stato fino a ieri fra gli artefici di quegli “orrori indegni di un Paese appena civile” che erano gli OPG. A meno che questi pareri non li si chieda a coloro dai quali sappiamo già preliminarmente che le tesi che noi vogliamo sostenere verranno suffragate. Di certo, comunque, il tema salute mentale e carcere lo vogliono trattare tutti. Delle ragioni ci saranno.
              
Il secondo elemento, per dubitare della scarsa rilevanza del tema, è costituito, senza dubbio, dal fatto che un tema così “marginale” investe però il cuore della malattia psichica, costituito dalla colpa. La colpa infatti, a livello soggettivo, come colpa impropria, sostiene i sintomi psicopatologici e le azioni malate (sintomatiche) dei pazienti. In questo mondo ormai dominato dall’apparente desiderio di mettersi in piazza, l’impulso a confessare dei malati di mente (anche dei rei folli) li induce a esporre agli occhi del mondo, in forma ovviamente travisata, le origini del loro malessere.
 
L’indomabile pressione degli effetti di tali colpe improprie entra prepotentemente in gioco, come vedremo tra poco, all’interno della questione - centrale per ciò che stiamo discutendo: si parla di carcere! - della responsabilità penale del mentally ill offender (per carità: non chiamiamoli rei folli, poiché questo potrebbe apparire stigmatizzante e desueto: mandiamoli in carcere i sofferenti di mente autori di reato, ma facciamolo col “massimo rispetto”! Quale ipocrita cinismo!). La colpa infine, nella misura in cui riguarda la responsabilità del reo folle, investe anche, radicalmente, la colpa sanitaria degli operatori di salute mentale e la posizione di garanzia di cui sono titolari questi operatori.
 
Diversi altri elementi, che non possono essere trattati in un breve articolo, segnalano la centralità, per tutta la salute mentale, del tema carcere. Ad uno, però, bisogna almeno fare cenno. La psichiatria moderna nasce in carcere, a Firenze verso la metà del seicento e in tutto il mondo western più di un secolo dopo. Nasce in carcere quando taluni coraggiosi medici stabiliscono che esiste una linea di confine - un cut off - fra una grave malattia mentale e uno stato di sufficiente benessere psichico. Al di là di tale confine l’afflizione/retribuzione/controllo del carcere è preferibile che ceda il passo alla cura/controllo delle discipline mediche (diventate poi psichiatriche).
 
La psichiatria (quindi la salute mentale) ha progressivamente cercato di scrollarsi di dosso quelle funzioni di controllo che rimangono in ogni caso inscritte, almeno fino ad oggi, nel suo mandato. Teniamo dunque presente che la psichiatria, nel cimentarsi con la tendenza seclusiva di tutti i suoi pazienti, è bene che non sia dimentica delle sue primigenie radici nei luoghi di reclusione.
              
Dopo questo lungo preambolo, passiamo brevemente a esaminare il documento del CNB e anche talune osservazioni della SIP.Ci piace partire da una premessa logica (la tanto vituperata logica che però, ammesso che non sia quella dei dentisti di lacaniana memoria, dovrebbe guidare le nostre considerazioni, specie in un campo che è squisitamente giuridico).
 
La logica ci dice, dunque, che il tema dell’assistenza di salute mentale in carcere potrebbe essere “semplificato” (anche se solo a un primissimo e superficiale sguardo!) dalla abrogazione del cd doppio binario per i rei folli. Tutti gli individui, come si sente dire da alcuni decenni e da molte autorevoli fonti, sarebbero capaci di intendere compiutamente il significato delle loro azioni delittuose e di determinarsi a compierle con consapevole volontà (tutti capiscono perfettamente quello che fanno, tutti possono convenientemente inibirsi dal compiere azioni delittuose).
 
Se si parte da questa premessa (che è quella del CNB, ma che è ampiamente condivisa dalla SIP), non c’è più alcun bisogno: di perizie psichiatriche (che così come vengono effettuate, specie in Italia, assomigliano molto al flipping coins in courtrooms), di accertamenti relativi alla pericolosità sociale dei pazienti assolti (magari per gravissimi reati) per vizio di mente, di REMS, di osservazioni psichiatriche (in carcere o altrove), di minorazioni psichiche e così via.
 
A rigor di logica, tutto sommato, potremmo fare a meno persino delle perizie sulla competency to stand trail, quasi unico accertamento effettuato negli USA: se infatti l’individuo ha una sufficiente capacità di comprendere il delitto che sta compiendo e potrebbe inibirsi volontariamente dal compierlo, non si capisce perché un’analoga comprensione e un analogo controllo non li possieda durante il processo a suo carico. Togliendo di mezzo il cd doppio binario (abrogazione degli artt. 88 e 89 - e correlati -  del cod. pen.) avremmo risolto la gran parte dei problemi.
 
Anche in altri settori del codice penale e di quello civile li avremmo risolti: se infatti tutti sono capaci di intendere e di volere, possiamo fare a meno della circonvenzione di incapace, dell’annullamento degli atti compiuti da incapace, dell’interdizione e della inabilitazione (delle quali faremmo volentieri a meno) e persino dell’amministrazione di sostegno per infermità di mente (della quale, invece, non vorremmo essere privati e della quale non vorremmo privare i pazienti, persone molto fragili) e via di questo passo.
 
Forse, se riconoscessimo a tutti gli individui una sufficiente capacità di intendere e di volere, avremmo risolto alla radice anche l’annosa questione dei trattamenti sanitari obbligatori: come somministrare dei trattamenti obbligatori a chi consapevolmente li rifiuta?
              
Al cd doppio binario per i rei folli, però, per le attuali disposizioni di legge non si può rinunciare.Allora come procedere per ottenere surrettiziamente lo stesso risultato? Si può fare come fa il CNB, ripercorrendo punto per punto le proposte di “riforma” dell’Ordinamento Penitenziario che, formulate dal precedente Governo, non sono state però approvate da quello attuale.
 
Il CNB, dopo avere plaudito alle disposizioni della L. 81/2014 (“superamento degli OPG”), attraverso le quali si sono opportunamente aboliti gli OPG creando le REMS (residenze a sola gestione sanitaria), non mette però in evidenza taluni punti eticamente critici di quelle norme:
1. La chiusura degli OPG la si è ottenuta trasferendo ex abrupto, dall’OPG al carcere, un terzo dei pazienti che venivano prima curati (si fa per dire; ma chi era responsabile di quegli “orrori”?) negli “Ospedali Psichiatrici Giudiziari” (Ospedali!): rei folli ex art. 148 cp, minorati psichici e detenuti sottoposti a osservazione psichiatrica.
 
2. Il numero dei posti letti nelle REMS è assolutamente insufficiente per ospitare coloro che, in via provvisoria o definitiva, devono essere sottoposti alla misura di sicurezza detentiva del ricovero in una REMS. Così non pochi pazienti (circa un terzo di quelli assegnati alle REMS), la cui pericolosità sociale è stata decretata o sentenziata dai giudici, restano in libertà o in carcere. I posti letto delle REMS, secondo la CNB così come secondo non pochi autorevoli esponenti della SIP, sarebbero anche troppi. Nelle REMS, sempre secondo costoro, non dovrebbero infatti essere ospitati i pazienti sottoposti a misure di sicurezza provvisorie (ex art. 206 cp) e, inoltre, il ricorso della magistratura alla “infermità di mente” sarebbe assolutamente eccessivo, sempre secondo costoro.
 
3. Le norme sul “superamento degli OPG”, per poter funzionare almeno parzialmente, necessiterebbero di una strettissima collaborazione fra i SSM territoriali, i CTU e la magistratura. I PDTA (Percorsi Diagnostico Terapeutico Assistenziali), che implicano una valutazione diagnostica, terapetico/trattamentale e prognostica (relativa anche alla pericolosità sociale: il trattamento dei pazienti, infatti, varia al variare del grado di pericolosità sociale), dovrebbero in primo luogo e per legge essere formulati dai SSM. Sarebbe indispensabile che i PDTA, per i pazienti autori di reato, venissero formulati dai SSM (specie dagli operatori dei SSM penitenziari, se il paziente è detenuto) di concorso con i CTU, in una stretta e virtuosa collaborazione fra Salute Mentale e Giustizia. Ma come pensare a una collaborazione di questo tipo se i SSM, in accordo con la SIP, sostengono che non è cosa loro effettuare una valutazione della pericolosità sociale, considerando che tale valutazione influisce pesantemente sul destino terapeutico/trattamentale del paziente? Perché dunque il SSM penitenziario di Viterbo si sarebbe dovuto occupare della pericolosità sociale del detenuto indiano -«con evidenti problemi psichiatrici»[3] e in cura psichiatrica in carcere- che ha ucciso a sgabellate un anziano recluso dopo avere già pestato a sangue, poche settimane prima, un altro concellino, presso il carcere di Civitavecchia?
 
Poiché il CNB e la SIP si trovano pressoché d’accordo sulla necessità di rivedere/abrogare le norme relative al cd doppio binario per i rei folli(pardon: mentally ill offenders), ne consegue, per via logica, che queste persone subiranno un processo come tutte le altre e, se colpevoli, verranno giudicate suscettibili di una pena detentiva ordinaria.
Qui, però, le soluzioni del CNB e della SIP divergono. Il CNB, ripercorrendo pedissequamente le indicazioni date nello schema di DL con cui il vecchio governo intendeva introdurre anche su questi punti la sua “riforma”, sostiene che i rei folli, una volta condannati come tutti gli altri, debbano essere avviati il prima possibile a dei trattamenti terapeutici esterni (in buona sostanza l’art. 147 cp dovrebbe essere esteso anche ai pazienti con patologie psichiche, l’art. 148 dovrebbe essere abrogato, la detenzione domiciliare dovrebbe essere estesa, così come l’affidamento in prova ai servizi socio-sanitari, in particolare ai SSM)[4].
 
Entrambi, CNB e SIP, sono del parere che, il ricorso di giudici e periti ai proscioglimenti per “vizi di mente”, sia assolutamente eccessivo; entrambi, CNB e SIP, nell’esprimere questo parere, glissano tranquillamente sul dato, assolutamente fattuale, relativo alla odierna prevalenza (concetto statistico)  in carcere (in carcere!)[5] di disturbi psichici con proporzioni dalle 10 alle 20 volte superiore a quelli della popolazione generale (prevalenza che emerge persino dalle imperfette fonti epidemiologiche citate dal CNB;per inciso va osservato che le dipendenze da sostanze sono, per tutta la psichiatria western, malattie mentali).
 
Circostanza che comporterebbe ovviamente, se una buona parte dei sofferenti psichici dovesse essere avviata a trattamenti esterni, uno svuotamento delle carceri e un considerevole aggravio per i SSM esterni. E’ quindi inevitabile che la SIP si opponga alle soluzioni “esternalizzanti” prospettate dal CNB, dichiarando apertamente che è molto meglio provvedere in carcere (in carcere!) all’assistenza di salute mentale di queste persone, implementando magari un pochino i SSM penitenziari.
 
Quindi, dopo avere proclamato che l’OPG (diretto da psichiatri) era un orrore a causa dell’intollerabile ingerenza della custodia nella cura, ora si vorrebbe provvedere alla cura dei rei folli all’interno delle carceri, facendo le viste che questa commistione sia ininfluente.
              
Su un punto, però, CNB e SIP tornano a unire le loro voci. Nei casi in cui sia acclarata la presenza di rilevanti turbe psichiche nelle persone detenute e non sia possibile adottare misure terapeutiche non detentive (pochi casi residui per il CNB, molti casi per la SIP), si dovrebbero organizzare “Sezioni Cliniche di Salute mentale in carcere”, a gestione esclusivamente sanitaria e destinate addirittura ai casi subacuti.
 
Secondo la SIP tutta l’assistenza di salute mentale nelle carceri dovrebbe poi essere garantita da apposite “Unità Forensi e Penitenziarie”, inserite ‘nominalmente’ nei DSM, ma separate dalle Unità Cliniche. Siamo a soluzioni che potremmo definire schizo-organizzative. Da un lato si vorrebbero costruire dei nuovi manicomi con trattamenti per subacuti addirittura nelle carceri, dall’altro lato si vorrebbe separare la gestione clinica dei molti e gravi sofferenti mentali con problemi giudiziari dalla assistenza riservata a tutti gli altri cittadini.
              
Non vogliamo commentare oltre. Ormai, in questa Italia impoverita anche di idee, siamo abituati a un diffuso malcostume: del reperimento di utili soluzioni clinico-organizzative (utili ai pazienti, ma insieme utili a tutta la società civile) sono troppo spesso incaricate persone con una scarsissima competenza specifica. L’importante sembra essere, però, che abbiano almeno qualche condiviso pregiudizio sulla “policy”.
 
Mario Iannucci e Gemma Brandi
Psichiatri psicoanalisti
Esperti di Salute Mentale applicata al Diritto

[3] Aliprandi D., Viterbo: uccide il compagno di cella, a Civitavecchia ci aveva già provato, ne Il Dubbio, 3 Aprile 2019
 

[4]
 Gli Autori del presente articolo si sono già espressi, più di un anno or sono, su ciò che di buono e di meno buono c’era nello schema di DL di “riforma dell’ordinamento penitenziario”. Cfr. Iannucci M. e Brandi G., Il reo folle e le modifiche dell’ordinamento penitenziario, su DPC 19 febbraio 2018. E’ verosimile che la presenza di non poca acqua sporca, in quello schema di DL, abbia contribuito a buttare via anche il bambino.

[5] Questi dati non sono solo quelli riportati da tutta le serie ricerche “scientifiche” effettuate in ambito detentivo, ma sono addirittura inferiori a quelli riportati dai Garanti dei detenuti. Cfr. Sicilia: il Garante: "necessaria tutela mentale durante l'esecuzione della pena", su blogsicilia.it del 22 dicembre 2018; ripreso da Ristretti Orizzonti: “Dai dati ufficiali del Dap […], aggiornati al 30 novembre 2018, risulta che i detenuti ospitati nelle carceri italiane sono 60.002 e di questi oltre 40.000 soffrirebbero di disturbi psichici e depressivi.”

 


06 aprile 2019
© Riproduzione riservata


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