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C’era una volta il contratto “facile”

di Ivan Cavicchi

Una volta non c’era nessun bisogno di negoziare la spesa per i contratti perché essa era dentro  un  automatismo incrementale complessivo e regolata da politiche  distributive più generali  definite con la concertazione. Ma oggi, cioè da un bel po’ di anni e dopo aver demolito, con il governo Renzi, la concertazione, non è più così

05 NOV - Abbiate pazienza ma c’è qualcosa che non mi torna. Se considerassimo la legge di bilancio come una commedia allora dovremmo dire che:
- ormai siamo alla sua ennesima replica sempre la stessa
- da anni i commedianti sono sempre gli stessi nelle stesse parti
- sembriamo tutti scemi cioè non ci rendiamo conto di recitare in una commedia assurda.
 
La commedia
In questa eterna commedia:
- io faccio il rompi scatole di turno che inesausto tenta di spiegare che non c’è trippa per gatti e che per avere soldi ormai non ci si può limitare solo a rivendicarli,
- il sindacato come un questuante cerca inutilmente soldi di qui o di la per rinnovare dei contratti fantasma,
- i soliti scioperi inconseguenti cioè dichiarati per sventolare bandiere e che non preoccupano seriamente nessun governo,
- le regioni che regolano la loro rivendicazione a seconda del quadro politico di turno,
- gli articoli che gridano al tradimento perché anche per questo governo la sanità non è una priorità,  
- Gimbe che gira il coltello nella piaga e ci spiega il cinismo dei numeri insufficienti,
- il governo che, come tutti i governi, alloca i soldi secondo le sue priorità e non secondo quelle della sanità e che al pari dei governi che lo hanno preceduto ci chiude il rubinetto,
- e da ultimo “Quotidiano sanità” che come una grande acquasantiera permette a tutti di intingere le dita e di farsi il segno della croce.
 
Coazione a ripetere
In tutto questo c’è qualcosa di insano che mi sfugge, qualcosa, che mi fa venire in mente quella che gli psichiatri definiscono “coazione a ripetere”, che ricordo altro non è se non “la tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze”.
 
Ma da cosa nasce questa coazione a ripetere? In che razza di commedia stiamo recitando? Viene da dire una “commedia degli equivoci” ma di quali equivoci parliamo?
 
Non essendo psichiatra preciso che uso la psichiatria solo come metafora e che la mia impressione è che gli attori si comportino come “coatti” semplicemente perché rifiutano la realtà. Un rifiuto probabilmente causato da un trauma profondo certamente rimosso. Ma quale sarebbe questo trauma?
 
Modi infiniti e modi finiti
Uscendo di metafora cominciamo intanto con l’assumere un riferimento storico: la legge 502 del 1992 ha modificato uno dei pilastri della 833 cioè: la salute da diritto assoluto quindi finanziabile in “modo infinito” diventa un diritto relativo finanziabile in “modo finito” e per questo subalterno alle condizioni finanziarie date quindi un diritto perfino costituzionalmente condizionabile.
 
Questo passaggio potrebbe essere il trauma rimosso dal momento che costituisce un mutamento strategico radicale:
- mentre il “modo infinito” indica un ideale politico: finanziare secondo necessità,
- il “modo finito” indica una prassi finanziaria condizionabile: finanziare secondo disponibilità.
 
Dalla 502 ad oggi sono passati 26 anni in questo lasso di tempo si sono succeduti ben 14 governi diversi (spero di averli contati bene) che hanno visto alcuni presidenti di destra e molti, la maggioranza, di centro sinistra.
 
Ebbene osservando a volo d’uccello questo periodo, in particolare le leggi di bilancio, le cose che colpiscono sono tre:
- indipendentemente dalla composizione politica dei governi il “modo finito” di finanziare la sanità è diventato una costante cioè una regola,
- la sanità, in senso lato, si comporta come chi rifiuta tale regola finendo con ciò di rifiutare la realtà,
- i vari attori della sanità, soprattutto regioni e sindacati, imperterriti, continuano a rivendicare, nonostante tutto, un “modo infinito” proprio come era scritto nella 833, cioè 40 anni fa.
 
Irreale e reale
Apparentemente si direbbe un dialogo tra sordi ma in realtà si tratta di una particolare relazione di opposizione tra:
- ciò che, nostro malgrado, non è più reale (il diritto come valore assoluto),
- ciò che, nostro malgrado, è diventato comunque reale e da un bel pezzo (il diritto come valore relativo).
 
Un esempio di relazione oppositiva è la guerra:
- da anni esiste una guerra o se preferite un conflitto tra le politiche finanziarie e la sanità, sempre quello,
- ogni anno tutti i governi (ideologici e post ideologici, di destra e di sinistra), danno alla sanità sempre meno di ciò che servirebbe,
- la sanità cioè noi nella coazione a ripetere, perdiamo regolarmente terreno cioè piano piano deperiamo e regrediamo.
 
Tutto questo perché:
- i governi non conoscono un altro modo di finanziarci se non il definanziamento,
- e noi, cioè la sanità, non sappiamo fare altro che subirlo passivamente.
 
Senza “coazione a ripetere” la commedia della legge di bilancio non potrebbe essere replicata il che vuol dire che tutti noi, compreso il sottoscritto, siamo prigionieri delle parti che rappresentiamo.
 
Il lavoro prigioniero dalla spesa
Nel momento in cui si è cambiata la regola (dal modo infinito al modo finito) sono accadute tre cose:
- le intese (patti per la salute) tra governo e regioni prendono il posto dei meccanismi automatici di finanziamento,  
- il lavoro, quindi i contratti, resta prigioniero di una spesa scarsa per definizione, pagandone tutte le conseguenze,
- il lavoro cioè il principale capitale del sistema viene decapitalizzato  cioè sul lavoro non si investe più.
 
A nessuno, meno che mai al sindacato, è venuto in mente in questi anni:
- di sganciare il lavoro dai “patti per la salute” e di fare delle “intese per il lavoro” concordando con il governo dei modi discreti di finanziare contratti,
- di ricapitalizzare il capitale introducendo nuove economie magari attraverso nuove organizzazioni del lavoro o non so che altro.
 
Ancora due paradossi
Due sono i grandi paradossi che oggi mettono i sindacati fuori gioco:
- finanziare i contratti con un lavoro ridotto ad essere solo un costo in un regime di definanziamento significa mettere questo costo in competizione con altri costi, fino ad arrivare al paradosso pazzesco che i contratti cioè la retribuzione del lavoro contribuisce a definanziare il sistema cioè a togliere soldi ad altre cose ad esempio ai Lea, all’occupazione, ecc.,
- fare i contratti in un regime di risorse scarse significa entrare in conflitto con le politiche occupazionali cioè accettare in nome del salario modi di lavorare inaccettabili, condizioni di lavoro proibitive, forme diverse di sfruttamento, cioè accettare che il lavoro come capitale sia svalutato.
 
Contratti o morte
L’ultimo intervento dell’Anaao è a dir poco drammatico. Esso tradisce la sua preoccupazione e la sua ansia sotto forma addirittura di disperazione (Qs 2 novembre 2018) e, come Garibaldi, lancia il suo grido di dolore o “contratti o morte”. Gli fa eco, secondo me non a caso, l’onorevole Carnevali del Pd, con una variazione sul tema “sblocco del personale o agonia della Ssn”. Sul ritorno dei toni apocalittici ho scritto di recente e quindi non mi ripeto.
 
A parte rilevare di sfuggita che investire quel poco che ci danno:
- sui contratti è cosa totalmente diversa dall’investire sull’occupazione, cioè sono due politiche completamente diverse,
- sui contratti e sull’ occupazione è praticamente impossibile.
 
Detto ciò voglio assicurare all’Anaao: totale rispetto per il suo travaglio e totale solidarietà, come sempre del resto, per le sue battaglie contrattuali. Anche per me, che ho fatto il sindacalista per tanti anni, il contratto è sacro. Un sindacato senza contratto non è più un sindacato. E un sindacalista che non firma almeno un contratto nella sua vita è un sindacalista infelice che alla fine se la prende con coloro colpevoli solo di farglielo notare.  
 
Ma detto ciò, come si suol dire, “guardiamoci nelle palle degli occhi”.
 
Anche il contratto, esattamente come il diritto alla salute, è un diritto economicamente condizionato, soprattutto:
- se il contratto è prigioniero di una spesa a sua volta condizionata,
- se il lavoro non ha una sua autonomia negoziale nei confronti delle politiche economiche del governo,
- se il contratto a fronte di una crescente decapitalizzazione del lavoro è pura rivendicazione.
 
Che si continui a pensare il contrario è semplicemente irragionevole. Capisco che dieci anni senza contratto sono tanti ma anche che se per 10 anni siamo senza contratto qualcosa di cui prendere coscienza sarà pur accaduto. O no?
 
Dubbi e fatti
Sono anni che, pagando, ahimè, lo scotto dell’avversione ad homine, esprimo dubbi sulle strategie contrattuali dell’Anaao (non entro nel merito delle sue rivendicazioni) e sono anni che i fatti danno ragione ai miei dubbi. Vi risparmio come prova l’esibizione degli articoli anche perché non sono pochi.
Lo scorso anno l’Anaao in occasione della legge di bilancio è stata letteralmente ingannata dal governo Gentiloni e dai suoi amici parlamentari Pd, che l’avevano illusa con le accise sulle sigarette (circa 600 milioni se non ricordo male). Ricordo di aver scritto un articolo che esprimeva il mio totale scetticismo sull’operazione.
 
Quest’anno, mutatis mutandis, l’Anaao se ne esce ancora una volta con le accise delle sigarette (alla faccia della coazione a ripetere) per poi ripiegare sulla cancellazione degli incentivi fiscali ai fondi integrativi. Un po’ tardi ma per carità meglio tardi che mai. Si rammenti però che i tempi per modificare una legge di bilancio sono importanti. Temo, ma potrei sbagliare, che anche quest’anno, come lo scorso anno, i giochi siano stati già fatti e l’Anaao rischi, per l’ennesima volta, di restare tagliata fuori rimanendo con un pugno di mosche in mano.
 
Ma tattica a parte a me preme sottolineare una vistosa incongruenza dell’Anaao che si ricollega a tutta la prima parte di questo articolo.
 
Mettere le mani nelle tasche degli altri
L’Anaao, al fine di finanziare il contratto chiede al governo di trovare i soldi per i suoi contratti in casa di altri, lasciando credere che in casa propria, cioè nel sistema ospedaliero non vi siano né diseconomie da recuperare né nuove economie da attivare, né nuovi valori da implementare, né altre possibili utilità da scambiare.
 
Cioè l’Anaao parte da un postulato inaccettabile: l’invarianza del proprio sistema e agisce la sua rivendicazione come se questo sistema nel suo profilo economico non sia modificabile. Ma così facendo è come se essa rivendicasse un diritto al salario incondizionato. Cioè un “modo infinito”. E questo è semplicemente irrealistico.
 
Considerando che l’ospedale in realtà non essendo mai stato riformato neanche dalla 833 e che quindi come servizio costa complessivamente quanto costa l’inadeguatezza di un modello superato, di una organizzazione spesso obsoleta, di vecchie prassi abitudinarie, ma non è più logico trovare i soldi in casa propria? E garantirne l’uso?
 
Non dico che l’Anaao si deve presentare con una proposta di riforma dell’ospedale (troppo difficile) ma possibile mai che in un eventuale negoziato non abbiate valori da scambiare? Cioè crediti da mettere non sul conto dei risparmi di spesa ma sul conto del contratto da rinnovare?
 
Al contrario dell’Anaao io credo che:
- di contropartite ce ne sarebbero tante perché in ospedale tante sono le diseconomie anche legate al lavoro,
- sia possibile in ospedale far nascere nuove economie da usare per fare dei buoni contratti anzi per fare del contratto uno strumento addirittura di riforma,
- lo scambio contrattuale non può essere invarianza contro salario cioè un disvalore contro un valore ma il contrario.
 
L’Anaao chiede in vario modo di riparametrare la retribuzione dei medici nell’invarianza più totale. Politicamente questa invarianza in particolare oggi non è credibile.
 
Una volta ….
Una volta,  nel “modo infinito” non c’era nessun bisogno di negoziare la spesa per i contratti perché essa, sulla base di parametri predefiniti, era dentro  un  automatismo incrementale complessivo e regolata da politiche  distributive più generali  definite con la concertazione (politica dei redditi, sviluppo dell’occupazione, valorizzazione della professionalità, perequazione e equità salariale, ecc.) , ma oggi, cioè da un bel po’ di anni e dopo aver demolito, con il governo Renzi, la concertazione, non è più così.
 
Una volta la contrattazione aveva uno “scopo”, adeguare le retribuzioni, e uno “scopo dello scopo”, cioè contribuire con i contratti a sviluppare l’occupazione, a qualificare i servizi pubblici, a qualificare la spesa, a fare eguaglianza, a sostenere i diritti, ecc, oggi   lo “scopo” è messo in discussione dalle scarsità delle risorse e lo “scopo dello scopo” è sparito come se i contratti non avessero più funzioni generali. Oggi il lavoro non ha più un significato strategico, svuotato di significati riformatori, è stato ridotto a mero fattore produttivo diventando un costo da ridurre il più possibile e in tutti i modi
 
Uscire dalla commedia assurda
Consapevoli di ciò si tratta di uscire dalla “commedia assurda” anche se  rompere la coazione a ripetere non è facile, specialmente con una controparte (governo e regioni) che in mente non ha nessuna altra commedia da recitare e meno che mai un nuovo copione sotto mano. Ma gioco forza proprio perché “assurda” questa commedia non può essere più replicata.
 
Toccherebbe a chi ha la responsabilità della cosa pubblica, parlamento compreso, tirare fuori delle proposte, perché così onestamente non si può andare avanti.
 
Ma se nessuno si muove perché nessuno ha idea di come fare, allora il problema va sollevato da chi più di ogni altro paga il prezzo dell’assurdità.
 
Che il sindacato almeno:
- sollevi il problema del cambiamento,
- cominci a discutere di un nuovo modo di fare i contratti,
- manifesti la volontà di voler rappresentare un’altra parte in un’altra commedia,
- si organizzi per mettere insieme due idee.
 
Priorità politiche
Non ho alcuna voglia di spararvi addosso le mie idee riformatrici sul problema del lavoro, dei contratti, dell’ospedale (per questo rimando alla “quarta riforma”), ho voglia invece di sottolineare quattro priorità politiche:
- il contratto di lavoro deve riacquisire le valenze strategiche perdute, esso non può servire solo a definire le retribuzioni di chi lavora ma deve servire anche a garantire il bene pubblico per cui non di soli numeri deve essere fatto ma anche di vantaggi per gli altri e di utilità generali,
- la spesa per il lavoro va distinta dalla spesa per la   sanità. Come esistono i “patti per la salute” dove le regioni in cambio di soldi si impegnano a fare certe cose, devono esistere i “patti per il lavoro”, dove i sindacati in cambio di soldi si impegnano a lavorare e a organizzare il lavoro in modo più conveniente a tutti,
- la retribuzione non può che essere fatta sostanzialmente di soldi ma non è detto che si possano fare soldi solo in un modo e che fare soldi significhi sempre e comunque aumentare la spesa. Si possono fare soldi anche spendendo in un modo diverso, lavorando in modo diverso, organizzando il lavoro in modo diverso. Cioè si può ridurre l’incremento del costo del lavoro in diversi modi. L’importante è che i soldi prodotti in vario modo con il lavoro finiscano in retribuzione,
- la retribuzione è funzione del lavoro, ma essa non può più essere ad un solo argomento ad esempio il compito da svolgere, ma deve essere a molti argomenti, tutti quelli diversi che rientrano nell’impegno di chi lavora e nel grado di soddisfazione prodotto dal lavoro nei confronti della nostra società.
 
Conclusione
Una volta la retribuzione del professionista si chiamava “onorario” cioè il denaro che riceveva era un titolo in ragione del quale la società riconosceva al professionista i suoi meriti sociali. La retribuzione del medico oggi è il contrario dell’onorario perché essa non è indipendente dalla crisi della professione.
 
La questione contrattuale quindi non è un’altra cosa dalla “questione medica”, un medico che socialmente vale sempre di meno non potrà mai essere onorato con l’onorario. Per essere onorati cioè ben pagati non servono solo soldi ma anche la fiducia della gente. Questa fiducia oggi va ricostruita e a tal fine anche i contratti sono fondamentali.
 
Ivan Cavicchi

05 novembre 2018
© Riproduzione riservata


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