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24 NOVEMBRE 2024
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La politica e i DG delle Asl. Stavolta cambierà qualcosa?

di Fabrizio Gianfrate

Il Governo ha appena annunciato una svolta con la creazione dell’Albo nazionale e nuovi criteri di verifica. Ma basteranno a far sì che alla guida di Asl e ospedali vadano professionisti realmente competenti e non “amici degli amici”? Vedremo, ma il problema è anche superare la monocraticità dei DG

19 GIU - Il ddl delega su nomina e valutazione dei DG sanitari coglie una criticità del nostro SSN sempre più incidente, proponendo qualche buon correttivo necessario ma non abbastanza sufficiente. L’esigenza nasce da uno stato dei fatti poco entusiasmante: oltre l’80% di ASL e AO chiude regolarmente i bilanci in rosso mentre la qualità organizzativa nell’erogazione delle prestazioni è sempre più insoddisfacente. Dove le responsabilità? Inevitabile guardare al DG, dato il potere “monocratico” che la 502 e la sua prole normativa, dal ’92 a oggi, affida a questa figura apicale.
 
Di nomina politica e ben remunerati, anche nelle molte aziende dai bilanci in profondo rosso e dalle performance scarse (“chiesa povera, frati ricchi”) il DG sanitario è il “dominus” della sanità locale con i suoi ampi poteri manageriali. “Manager sanitari vil razza dannata”, canterebbe allora Rigoletto? Fino a un certo punto. La criticità è nei criteri di selezione e valutazione ma anche nel contesto di “governance” nel quale operano. Il DG ha grandi responsabilità ma spesso viene nominato e valutato (e rimosso) per meriti diversi da competenze e risultati.
 
I meccanismi di nomina e rimozione “politica”, che alla prova dei fatti stanno in quel legame diretto ed esclusivo con la referenza politica locale di cui è espressione, ne vincolano la piena indipendenza professionale. E in aggiunta abbiamo anche quei condizionamenti più o meno espliciti provenienti dai vari interessi incrociati, pur legittimi, dei numerosi stakeholders del sistema che amministra (privati, professionali, sindacali, ecc.), spesso in loop pro o contro, con quella stessa politica a cui riporta. Con il risultato, spesso, di approcci decisionali conservativi che evitano cambiamenti a lungo termine o comunque con orizzonti temporali difformi da quelli elettorali locali  (chi tocca la sanità muore, anzi non viene rieletto)
 
La 502, sotto quest’aspetto, ha sostanzialmente fallito. Doveva rivoluzionare il sistema creando aziende capeggiate da manager dai pieni poteri, aumentarne l’efficacia, l’efficienza, la funzionalità, la trasparenza e l’indipendenza dalla politica. Eliminando le allora USL in mano ai Comitati di Gestione, spesso consociativi tra le forze politiche di quei tempi e lottizzati alla Cencelli sul proporzionale, di solito presieduti dal ras politico locale (quello della mia USL, ricordo, era un postino, superignorante e supercraxiano, poi superinquisito quindi superprescritto, ca va sans dire).
 
Oggi in sanità la politica fa il bello e il cattivo tempo come e più di prima della rivoluzionaria 502, ma i livelli d’inefficienza permangono e pure il malaffare.
 
Dal punto di vista del management, la dottrina insegna come l’accentrare i poteri in un’unica figura, per di più controllata solo da chi l’ha nominata, in un sistema complesso come la sanità rischi di generare effetti distorsivi, richiedendo invece decisioni guidate da visioni pluriprospettiche e multidisciplinari.
 
L’”uomo solo al comando”, nel gomitolo organizzativo dei servizi sanitari, rischia un’autoreferenzialità pericolosa, l’autoconvinzione non vagliata dal confronto del proprio pensiero, nella sicurezza di fare bene. O in assenza di contrafforti nella “governance” si può accrescere il rischio non del tutto residuale di auto percezione eccessiva del proprio ruolo benefico nell’esercizio quotidiano del potere (il monarca del “piccolo principe” che si auto compiace sinceramente dell’obbedienza del sole al quale ordina di alzarsi al mattino e tramontare la sera).
 
I sacri testi di scienza dell’organizzazione ci ricordano poi che più le strutture sono verticistiche maggiore è il tasso di conformismo e uniformità decisionale che solitamente generano, limitando ulteriormente ogni critica costruttiva capace di accrescere il livello qualitativo delle decisioni assunte, col dissenso spesso percepito dal vertice come attacco personale e tacciato di eresia (con conseguente  rogo) ma con alla fine perdita di valore aggiunto, specialmente se le figure coinvolte sono di elevato livello professionale (come appunto in sanità)
Se, poi, a una gerarchia così accentuata si associa lo “spoil system” della politica, come di fatto avviene, si amplifica l’effetto accentratore da un lato e di devozione a chi decide le poltrone dall’altro (“forte con i deboli, debole con i forti”), mettendone ad alto rischio la funzionalità e i risultati, specialmente se il vertice non ha adeguata competenza, se selezionato con criteri differenti da questa. E qui ritorniamo al ddl delega e ai suoi obiettivi.
 
Oggi circa la metà dei 300 DG in carica è alla prima esperienza. Sono di solito sostituiti quando cambia la giunta o l’assessore di riferimento. Permane spesso solo un simulacro di efficientismo, incrostato dai sedimenti dei più retrivi vizi della pubblica amministrazione, del carattere post feudale di certi meccanismi di amministrazione del potere che rischiano di deviare verso comportamenti opportunistici. Dove la sanità, usandone i suoi fini più nobili, diventa non di rado giustificazione etico-politica a comportamenti illeciti, sentina dell’ideologia e demagogia come falsa coscienza.
 
Eppure professionisti con le complesse competenze necessarie non mancherebbero (nel mio piccolo ne vedo non pochi nei Master in cui insegno).
Il punto è fare sì che la politica compia un passo indietro e non sia il decisore unico ma uno dei partecipanti, per quanto importante, alla decisione. Ma è in grado e vuole imporre questo a se stessa? Si può chiedere al tacchino di partecipare al pranzo di Natale?
 
Da decenni il manager pubblico di nomina opportunisticamente politica, e non mi riferisco ovviamente solo alla sanità, ha non di rado rappresentato un emblematico campionario umano da staterello d’operetta di Leàr. E anche oggi il buon Matteo Maria Boiardo non è rappresentato in modo molto nobile dai suoi moderni epigoni. Spesso abbiamo visto chiamare a ruoli di management pubblico, persone scelte solo per appartenenza condivisa, politica o di altra meno trasparente natura.
 
Talvolta in sanità si è scelto il bravo medico vicino al partito, come se la pur eccellente capacità di resecare un ernia o palpare un addome (ma con la tessera in tasca) abilitasse a gestire attività organizzative con migliaia di dipendenti, apparecchiature e milioni di euro. È un po’ come affidare a un muratore, per quanto bravo, la gestione del Beaubourg o dell’Empire State Building. Per non parlare, poi, del solito vizio italico del familismo amorale, come lo apostrofò il sociologo Banfield nel ’58: diceva che chi detiene il potere chiama al vertice un familiare o affine, ad esempio un fratello (insomma, è noto che in Italia fai carriera se sei fratello e muratore…)
 
Per l’iconografia tradizionale, suffragata in buona misura dai fatti, nell’italico manager pubblico bravura e competenza sono sostituite da fedeltà e obbedienza. In fondo è dalle nostre parti che un imperatore nominò senatore il proprio cavallo. Nella selezione domina il “cuius regio, eius religio”: la religione del sovrano sia quella dei suoi sudditi. Esiziale il bacio della pantofola.
 
Formazione non a York o Harvard ma a casa del cognato-onorevole. Economia della conoscenza scalzata dall’economia delle conoscenze. Nessuna sorpresa, poi, se l’eloquio è da quotidiano sportivo, l’intercalare sboccato e il bouquet verbale da inglese a dispense (format, target, mission…), quell’inglesorum vaniloquente del moderno azzecagarbugli manzoniano, a furbo paravento della pochezza espressa nei risultati.
 
Però fedelissimi a chi li nomina (il brillante Arpinati, quando Mussolini gli preferì l’opaco Starace come segretario del Fascio protestò col duce: “ma Starace è un cretino!”, risposta: “si, ma un cretino obbediente”). Manager da riporto, li chiama quel giornalista cattivo. Di un leader inetto salito al vertice scodinzolando si diceva che non capiva niente, l’unica materia in cui aveva grande competenza. Un altro, prima dell’ascesa al potere sbaragliando i concorrenti per accondiscendenza al padrone, lo chiamavano “linguetta”. E poi quel politico portato poi in cima dal potentissimo leader politico DC: ne era ancora giovanissimo suo portaborse, correvano gli anni ’60, quando in macchina con lui e con l’austero Segretario di Stato Vaticano all’anziano onorevole scappò una mefitica flatulenza, il giovanotto si scusò immediatamente addossandosene la colpa. Di un altro ancora, un po’ stempiato, asceso al soglio perché fedelissimo ma non proprio un’aquila, si disquisiva della fronte così inutilmente spaziosa. Ma il migliore resta quello che, arrivato al top dopo anni e anni di salamelecchi al potente di turno, interpretava così il proprio trascinante ruolo di capo: “sono il loro leader, devo seguirli!”
 
Ho ovviamente evidenziato in modo forzoso il peggio, un assortito campionario di sottoumanità al comando, la presa del potere delle creature dei quadri di Hieronymus Bosch. Non è tutto così, anzi. Però la sanità è materia troppo complicata e importante per tutti per affidarne la conduzione in toto a una persona sola per di più lasciando la sua nomina e valutazione a un unico soggetto, col quale si crea un legame biunivoco ad alto rischio di distorsioni.
 
A mio avviso vanno quindi resi i processi decisionali di nomina, valutazione e “governance” più collegiali e condivisi, maggiormente pluralistici, con decisioni più vagliate collegialmente per renderle così più solide anche nella loro successiva esecuzione operativa. Allora, sinergicamente a questo ddl delega sui DG, varrebbe la pena riprendere qualcuna delle varie proposte di modifica in senso collegiale della “governance” di ASL e AO affastellatesi nei polverosi archivi parlamentari negli ultimi 15 anni.  
 
E riparlare di “checks and balance”, pesi e contrappesi, di gestione e controllo reciproco, come ad esempio un consiglio di amministrazione, esecutivo con membri (votanti) anche rappresentativi delle professioni, dei pazienti/cittadini e delle municipalità del territorio, sullo stampo ad esempio di quanto si sta facendo in Gran Bretagna con la recente riforma Cameron col suo “NHS White Book”.
 
Nella nostra sanità domandata da una società di sempre più anziani e dalle risorse sempre meno sufficienti, sarà l’efficienza il fattore chiave, e senza manager come si deve, messi nelle condizioni migliori, saranno dolori. Per favore se ne tenga conto.
 
Fabrizio Gianfrate
Professore di economia sanitaria

19 giugno 2014
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