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Il riformista che non c’è. Perchè il cambiamento non può che passare per il “lavoro”

di Costantino Troise

La riforma che non c’è non può non partire che dalla valorizzazione delle professioni e dal reclutamento delle intelligenze professionali sul vero obiettivo di “promuovere, mantenere e recuperare la salute fisica e psichica della popolazione”. Medici e operatori non sono il problema ma la soluzione

11 NOV - Scelta o caso, Il riformista che non c’è di Ivan Cavicchi arriva in una fase molto delicata della sanità pubblica italiana con l’intento non nascosto di colmare un vuoto in un dibattito che nemmeno c’è.
Come viene denunciato da tempo, e da più parti, una tempesta perfetta ha, infatti, colpito duramente la tenuta del Servizio sanitario Nazionale sottoponendolo ad erosioni strutturali e ponendo le premesse per il suo sfaldamento.
 
I determinanti sono molteplici e complessi:
- la crisi economica, che ha fatto irrompere prepotentemente sulla scena il tema della sostenibilità, ancorchè spesso usato come alibi per operazioni politiche di apertura alla intermediazione finanziaria ed assicurativa,
- lo spostamento, forse irreversibile, dell’asse della politica sanitaria verso le Regioni, con il corteo di piani di rientro, LEA non garantiti, diseguaglianze nella esigibilità del diritto alla salute,
- la crisi di fiducia e consenso dei partiti tradizionali che hanno cancellato la sanità dalla loro agenda,
- la confusione conflittuale di identità professionali vecchie e nuove,
- la svalutazione del valore dei CCNL, mutilati ed infine bloccati sine die per via legislativa, e del lavoro al servizio dello Stato, assimilato tout court a spesa pubblica improduttiva e parassitaria,
- il collasso del sistema della formazione medica diventato fabbrica di disoccupati che priva il sistema sanitario di energie giovanili.
 
Sono saltati uno ad uno i tasselli della L. 833/1978 e delle successive riforme, e chiunque voglia non limitarsi a conservare l’esistente ma ridefinire una tutela della salute più efficace ed efficiente deve trovare risposte in grado di innovarli e ricollocarli in una nuova idea di sistema. Non basta la manutenzione ma occorre una riforma, ha ragione Cavicchi, non tradizionale, ma alla altezza delle sfide del cambiamento, non essendo più sufficiente il solo obiettivo del miglioramento.
 
Che inizi facendo piazza pulita di luoghi comuni e vere mistificazioni, a cominciare dal tema della in-sostenibilità. La sanità italiana lungi dall’essere, come tutti i dati internazionali dimostrano, un pozzo senza fondo rappresenta il più grande contenitore di competenze professionali ed innovazioni tecnologiche, un fattore di coesione sociale ed un volano di crescita economica. Non un lusso che non possiamo permetterci, come molti vorrebbero far credere, mentre possiamo spendere miliardi in armi da guerra in assenza di guerra. La lotta agli sprechi, che certo non mancano ma che se la ridono di tagli lineari, deve servire a garantire i necessari investimenti per mantenere i livelli quali-quantitativi raggiunti nell’erogazione dei servizi sanitari.
 
E smascheri il grande equivoco dell’aziendalismo dominante da 20 anni, che ha assegnato alle aziende sanitarie la mission principale, se non unica, del governo dei costi di produzione attraverso un puro meccanismo di controllo dei fattori di produzione, medici e dirigenti sanitari compresi, senza, peraltro, riuscire nemmeno a raggiungere l’obiettivo principale per il quale era nato. La complessità del mondo sanitario non può essere governata con i soli strumenti della cultura aziendale, anche ove questi venissero utilizzati al meglio, cosa che in verità è accaduta raramente.
 
Il riformista che ci dovrebbe essere è quello capace di ripensare il ruolo e la organizzazione della rete ospedaliera insieme, non prima né dopo, con quella delle cure primarie in una logica di sistema che offre diversi livelli di risposta in differenti setting a diverse domande di salute. “Sincronizzando la riorganizzazione degli ospedali con lo sviluppo di modelli consolidati di cure primarie” (Cartabellotta). E di cambiare paradigma alla formazione medica, vera emergenza nazionale, dove il monopolio universitario oggi produce disoccupazione o fuga. Senza più consentire che la Università si comporti, e sia autorizzata a comportarsi, come variabile indipendente, sostanzialmente al riparo da tagli ed estranea ad ogni progetto di riorganizzazione,priva di limiti e di obblighi sociali. Un mondo che si assegna una alterità assoluta, nella quale intravede il solo modo di sopravvivere, che si ritiene e vuole essere “a parte”, sciolto da ogni legge, ordine,regole, confidando sul pensiero debole della politica.
 
Il tema decisivo, come Cavicchi intuisce ed argomenta in un bel capitolo, è, però, la restituzione di valore alla professione ed al lavoro professionale che muove la sanità, oggi ridotto a fattore banale, sebbene svolto a tutela di un bene costituzionalmente protetto, in condizioni sempre più gravose e rischiose, tutti i giorni e le notti dell’anno. Il disagio professionale è reale e chiede risposte alla eterna “questione medica”, esorcizzata ma non risolta in questi anni, malgrado il tentativo di normalizzare la categoria con un attacco massiccio a tutto campo .
 
Il problema che abbiamo di fronte è in sostanza quello di progettare un nuovo sistema che ricostruendo i valori di appartenenza alla professione privilegi le risorse sociali nei confronti dei valori economici, superando l'attuale modello organizzativo nel quale il professionista è spinto ad identificarsi. E battere la voglia di deregulation delle aziende che chiedono mano libera nell’utilizzo delle risorse umane, costi da tagliare prima e più degli altri, percependosi e muovendosi come ab-solute da leggi e contratti di lavoro. Non a caso l’attacco è portato ai due strumenti che regolano il rapporto tra datori di lavoro e lavoratori fin dall’ ‘800, cioè CCNL e sindacati, e dopo avere mortificato lo status economico dei medici oggi ci si muove contro lo status giuridico di dirigenza speciale. Ignorando o dimenticando il suo rapporto con struttura e prerogative della professione e la necessità di garantire autonomia e responsabilità, caratteri distintivi della professione, all’interno di organizzazioni oggi votate al mero controllo dei costi. Anche in una logica di scambio che conceda più autonomia in cambio di più responsabilità e non neghi spazi negoziali nei confronti del management.
 
Il cambiamento oggi passa per il lavoro e per uno spazio contrattuale visto come fattore di innovazione e terreno di scambio. La riforma che non c’è non può non partire che dalla valorizzazione delle professioni e dal reclutamento delle intelligenze professionali sul vero obiettivo di “promuovere, mantenere e recuperare la salute fisica e psichica della popolazione”. Medici ed altri soggetti professionali non sono parte del “problema” quanto della soluzione e non possono essere considerati pure controparti in quanto “autori di salute”, secondo la definizione coniata dallo stesso Cavicchi. Inutile, perciò, adattarsi o adattarli alle necessità aziendali tirandoli fuori dai codici etici e deontologici.
 
Le criticità sono sotto gli occhi di tutti. Il peggioramento diffuso delle condizioni di lavoro con il dilagare della medicina difensiva, la riduzione degli spazi di umanizzazione, la compressione dei tempi di relazione che sono tempi di cura, una caduta dei livelli di sicurezza per operatori e cittadini. La austerity sui medici, con il blocco contrattuale che dura dal 2010 e la perdita del potere di acquisto delle retribuzioni, è peggio anche dei tagli lineari perché, comunicando che le possibilità di crescita economica sono solo al di fuori del sistema pubblico, produce disincentivi che impoveriscono ulteriormente il servizio sanitario. Un “arrangiatevi” fuori tempo per chi ha creduto agli aspetti solidaristici, etici e civili della mission del medico pubblico. Il blocco del turnover, assoluto e lineare, non solo chiude le porte ad una intera generazione di giovani, respinta o precarizzata dopo 11-12 anni di formazione, ma impedisce, in molte parti del Paese, di garantire i LEA, riducendo quantità e qualità delle prestazioni erogate con un meccanismo elusivo che utilizza l’allungamento dei tempi di attesa. Risparmiare sul turnover vuol dire privare le organizzazioni sanitarie di una risorsa preziosa, quale il ricambio generazionale, senza la quale non c’è trasferimento di competenze e formazione sul campo. L’invecchiamento delle categorie professionali non esercita un ruolo neutro sulla efficacia e sulla efficienza di quello che si fa.
 
La rete ospedaliera è diventata un contenitore troppo vasto per categorie impoverite numericamente fino a livelli organizzativi al limite della soglia di sicurezza . Restringere la rete concentrando le competenze e le tecnologie in modo da assicurare la migliore risposta in un definito ambito territoriale è una operazione auspicata da anni che non basterà se nello stesso tempo non cambia la organizzazione del lavoro anche per rispondere alle esigenze poste dalla crescita impetuosa delle donne-medico e dalla richiesta trasversale di condizioni di vita-lavoro più bilanciate. Il semplice adattarsi ai contesti, anche epidemiologici, che mutano senza una idea di cambiamento finisce per nuocere, sia al sistema che ai soggetti professionali.
 
La sanità è un tema centrale nella vita e nei valori di un paese civile ma la Politica non sembra pronta ad un nuovo pensiero sull’organizzazione della sanità pubblica. Partiti, vecchi e nuovi, e movimenti, non appaiono in grado (intenzionati?) di declinare politiche sanitarie in una idea nazionale alla altezza delle sfide di oggi. Il rischio è che lascino il testimone della difesa di un sistema sanitario pubblico e nazionale solo nelle mani dei Medici ed il grido di dolore per lo scenario prossimo venturo solo sulle loro bocche. Ma la gestazione del riformista che non c’è rischia di prolungarsi fino a metterne a rischio la sopravvivenza, insieme con quella di un sistema che si consuma aspettando Godot privando i cittadini italiani di una grande conquista sociale. Un teatro dell’assurdo degno di Beckett in cui i protagonisti rischiano di vivere i prossimi “giorni felici” continuando a sprofondare sotto terra.
 
 
Costantino Troise
Segretario Nazionale Anaao Assomed

11 novembre 2013
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