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Caso Cucchi: medici condannati e infermieri assolti. Tutto bene?

di Luca Benci

Le contraddizioni di una sentenza che farà ancora discutere. Dal ruolo dei dirigenti di struttura complessa a quello degli agenti di polizia penitenziaria. Fino alla tesi della responsabilità collettiva per i medici e all’assoluzione degli infermieri perché “non era nelle loro facoltà di sindacare le iniziative dei medici”

09 SET - La vicenda di Stefano Cucchi è giunta alla prima verità processuale. Nei giorni scorsi sono state depositate le motivazioni della Corte di Assise di Roma, III sezione, sentenza 13/2013.
Il caso è noto. Stefano Cucchi viene arrestato nella notte del 16 ottobre 2009 con l’accusa di cessione di sostanze stupefacenti (una modesta quantità) e subito dopo disposta la perquisizione domiciliare nella casa dei genitori, successivamente viene accompagnato presso la caserma dei carabinieri dove accusa i primi malori.  Interviene il 118 alla fine dell’intervento rifiuta il ricovero. Viene poi tradotto in Tribunale  per l’udienza di convalida dell’arresto e li condotto nelle celle del piano sotterraneo.
 
Viene operata una perquisizione domiciliare che non sortisce effetti di sorta. Viene accompagnato presso la stazione dei carabinieri e successivamente “tradotto” in tribunale per l’udienza di convalida dell’arresto. Per cause e con modalità non chiarite, neanche in questo primo grado di giudizio, Stefano Cucchi riporta lesioni personali: politraumatismo ematoma in regione sopraciliare sinistra, escoriazioni sul dorso delle mani, lesioni escoriate in regione para rotulea bilateralmente cinque lesioni escoriate ricoperte da crosta ematica in corrispondenza della crosta tibiale sinistra, altre piccole escoriazioni e infrazione della quarta vertebra sacrale.
Il paziente riferisce di “essere caduto dalle scale” ma le lesioni riportate non sono compatibili con tale versione. Si sospetta – non potrebbe essere altrimenti – un pestaggio ad opera delle forze di polizia coinvolte (carabinieri e polizia penitenziaria).
 
Successivamente viene portato al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli di Roma (pronto soccorso) dove rifiuta il ricovero e successivamente alla sezione carceraria dell’ospedale Pertini.
Gli vengono effettuati degli esami, praticato un cateterismo vescicale, prescritta una generica indicazione a idratarsi e pratica una qualche terapia di sostegno. Il 22 ottobre Stefano viene trovato morto nel suo letto: provano a praticare – anche se non si conosceva l’orario della morte – un massaggio cardiaco inutilmente.
Sono stati rinviati a giudizio tre agenti di polizia penitenziaria, sei medici e tre infermieri dell’ospedale Pertini di Roma.
In questa sede non ci interessa inoltrarci nella difficoltosa ricostruzione legata all’eventuale responsabilità degli agenti di polizia penitenziaria che sono stati assolti dal capo di imputazione relativo alle lesioni personali e sulla eventuale responsabilità dei carabinieri,  anche se questa evenienza è stata a lungo discussa come possibile fatto che ha contribuito alla causa di morte.
 
Gli agenti di polizia penitenziaria sono stati assolti dall’accusa di lesioni personali volontarie pur “sussistendo il ragionevole dubbio che i fatti siano stati commessi dagli agenti di polizia penitenziaria”. Il “pestaggio” comunque, secondo i giudici, verosimilmente c’è stato: “è legittimo il dubbio che il Cucchi, arrestato con gli occhi lividi e che lamentava di avere dolore, fosse già malmenato dai carabinieri”. Dai carabinieri, quindi e non dalla polizia penitenziaria. Poi però in sentenza non si trasmettono gli atti al pubblico ministero per le valutazioni del caso. Decisione di difficile comprensione e decisamente contraddittorie.
 
In queste prime riflessioni incentreremo la nostra attenzione sui profili di responsabilità del personale sanitario con particolare riferimento al personale medico.
I capi di imputazione sono stati numerosi: abbandono di incapace (da qui la competenza della Corte di assise), abuso di atti d’ufficio, rifiuto di atti d’ufficio, falso in atto pubblico e omissione di referto.
L’imputazione relativa all’abbandono di incapaci – che periodicamente viene contestata al personale sanitario negli ultimi anni – difficilmente riesce a essere provata. Anche in questo caso non è stata provata. La morte di Stefano Cucchi dunque rientra nel campo della colpa e non di un reato doloso.
La causa di morte è stata oggetto di un’ampia ricognizione delle numerose consulenze tecniche e della perizia svoltasi. Le tesi si sono contrapposte tra di loro: dalla morte improvvisa, alla causa di morte innestatasi dalle lesioni ricevute e proseguita con un complesso meccanismo che tralasciamo fino alla sindrome da inanizione che poi è stata sposata dai giudici: morto quindi per fame e per sete. A memoria non si ricordano cause di morte – anoressici e digiunatori volontari a parte – consimili che hanno riguardato un paziente ricoverato per altre cause e dell’età di trenta anni basata su una perizia effettuata da medici di varie specialità, di cui solo uno ha potuto osservare nella sua vita professionale, la morte per la sindrome da inanizione. Soprattutto non si ha memoria di una morte per fame e per sete avvenuta in pochissimi giorni in un paziente ricoverato.
 
La responsabilità dei medici è collettiva: “tutti hanno fornito il loro contribuito causale alla verificazione dell’evento”. Correttamente, secondo questa impostazione, si esclude che vi possano essere posizioni da escludere in base al c.d. principio dell’affidamento secondo il quale ciascun componente dell’equipe può fare legittimo affidamento sul corretto svolgimento degli altri, in quanto, questo principio non opera quando “colui che si affida ad altri, sia in colpa per avere violato norme precauzionale o avere omesso determinate condotte confidando che altri, succedendo nella posizione di garanzia, eliminassero la violazione o ponessero rimedio all’omissione”. Il principio dell’affidamento non può essere il paravento per giustificare l’irresponsabilità.
Tutta l’attività dei medici “è segnata da trascuratezza e sciatteria” su tutta la linea: la valutazione del paziente e del suo stato nutrizionale all’ingresso del reparto (in questo caso anche la compilazione di un indice infermieristico come l’indice di Braden era certamente censurabile in quanto compilato senza vedere il paziente) ne è la parte più paradigmatica. Evitiamo l’approfondimento sulle accuse dei reati volontari – abuso d’ufficio, omissione di referto (che appare, invero, incredibile di come si sia, nei vari passaggi potuto realmente omettere) e rifiuto di atti d’ufficio restando invece sull’omicidio colposo.
 
La negligenza della compilazione della documentazione, l’incertezza del peso del paziente al momento del ricovero e l’omissione delle attività di pesatura durante il ricovero (è morto per fame…) sono state si censurate ma verosimilmente non con la giusta attenzione. Si è invece posto maggiore cura alla problematica del consenso – Stefano Cucchi era spesso riluttante e non collaborante – per arrivare a escludere che è compito di chi prende in carico, per professione e destinazione, pazienti difficili non può nascondersi dietro a generiche scuse di non collaborazione o, addirittura, dietro sacrosanti ma non invocabili in questo caso, principi costituzionali come il rifiuto alle cure. I giudici romani scrivono che “il consenso informato non va inteso come un ulteriore adempimento burocratico o come un momenti di conflitto nella relazione medico-paziente” ma come un momento fondamentale per “affrontare in modo corretto la terapia”. Secondo la Corte di assise “non ha alcun rilievo che la volontà negativa del paziente venga espressa oralmente o per iscritto” essendo del tutto sufficiente una prova per testimoni.
Nel caso di specie la sentenza prosegue “inutilmente si cercherebbe traccia di corretta informazione sul trattamento terapeutico di cui era condizionata la sopravvivenza di Cucchi”. Quindi paziente non informato. L’informazione è la parte essenziale per ottenere l’adesione ai trattamenti. Di questa attività – se c’è stata – non si rinviene traccia nella documentazione sanitaria.
 
Di maggiore incisività invece è stata la parte relativa al dirigente di struttura complessa. Ricordiamo che, da un punto di vista normativo, la figura del dirigente in questione  è l’epilogo di una evoluzione normativa che parte dal vecchio primario, passa dal dirigente di secondo livello e arriva alla attuale denominazione.
Sono anni che si discute sulla figura del direttore di unità operativa e sulla sua diversità rispetto alla previgente figura primariale. Sulla responsabilità di questa figura si sono contrapposte, nel processo, due diverse impostazioni. La prima, dei difensori del direttore, tendenti alla sostanziale diversità della figura direttore rispetto al primario evidenziandone maggiormente gli aspetti organizzativi e gestionali teso a “rispondere dell’obiettivo dell’economicità delle risorse” mentre gli altri dirigenti medici risponderebbero della responsabilità clinica. I giudici romani hanno sposato l’impostazione della figura apicale riconducibile alla ex figura primariale arrivando alla curiosa conclusione che, nonostante due riforme attuate sulla dirigenza medica, la figura del direttore rispetto al primario di un tempo “in fondo non è cambiata, risolvendosi, dunque, l’eliminazione della figura del primaio in una questione meramente terminologica”. Dunque, nonostante i cambiamenti di diritto positivo, nulla è cambiato e competono ai medici apicali gli stessi compiti primariali previsti dalla riforma ospedaliera del 1968 ormai abrogata.
 
La Corte di assise circostanzia e specifica che competono al direttore-primario: poteri di direttiva e di delega per le questioni tecnico-organizzative, di verifica e di vigilanza dell’attività autonoma o delegata dei medici per così dire subordinati e poteri di avocazione “della gestione del trattamento sanitario di uno o più pazienti”. I giudici romani riconoscono che vi sono state novità normative che però non hanno cambiato la sostanza mantenendo quindi in vita la figura del “capo-dirigente medico del reparto” (testualmente dalla sentenza) il quale “per la posizione apicale rivestita, mantiene quindi il potere-dovere di indirizzo, programmazione e vigilanza sui medici che lavorano nel reparto”. Corollario di questo assunto è che il primario-direttore venga meno all’esercizio dei citati doveri “sarà anch’egli responsabile della condotta colposa dei suoi subordinati”.
 
Al primario-direttore “permane la responsabilità del soggetto apicale per omessa osservanza del dovere di direzione, inteso come dovere di indicare rimedi e cure per la tutela della salute dei pazienti e di vigilanza nei casi di particolare complessità che necessitino del suo intervento”.
Su questa discutibile costruzione concettuale dei compiti del direttore e sulla sua sovraordinazione professionale asserita è stata costruita in gran parte la responsabilità del direttore di struttura complessa. L’impressione è che i giudici  si siano fatti condizionare pesantemente dagli imprecisi giudizi giuridici dei periti – che hanno evidentemente esorbitato il loro ambito -  i quali sono arrivati a sostenere – non si capisce in base a quale assunto normativo – che il direttore (che loro chiamano ancora dirigente di secondo livello) – è  una figura che sostanzialmente  deve essere sempre presente all’interno del reparto (“frequentazione preferenzialmente quotidiana”) per verificarne il funzionamento e per indirizzare i medici sulle attività diagnostiche e terapeutiche. I giudici hanno giudicato i rapporti tra medici in base all’impianto normativo del 1968-69 riportando in vita anche l’istituto dell’avocazione scomparso da ben quattordici anni.
 
I rapporti tra il direttore e gli altri dirigenti è – quanto meno sulla carta e cioè sulle norme di diritto positivo – cambiato nel momento in cui si sono fatti sparire aiuti e primari e introdotto il dirigente (il primo livello di cui parlano i periti è scomparso dal 1999) in cui si specifica che tale medico agisce con “autonomia professionale”. L’errata convinzione dei periti si estende anche al controllo gerarchico sugli infermieri laddove specificano che compete al medico apicale il controllo e la verifica dell’operato “del personale medico e infermieristico”. Anche in questo caso i periti mostrano una totale trascuranza delle norme di diritto positivo che sanciscono l’autonomia professionale degli infermieri con relativa responsabilità.
La costruzione dell’autonomia vincolata non persuade e non convince, anche se autorevolmente affermata. “Autonomia vincolata” è un ossimoro, è una contraddizione in termini che sconfessa i livelli di autonomia (se esiste un vincolo gerarchico che autonomia è?).
Assoluzione, infine, per gli infermieri in quanto piuttosto sbrigativamente viene scritto “non era nelle loro facoltà di sindacare le iniziative dei medici”.
Queste prime riflessioni sulle contraddizioni della sentenza vengono scritte a caldo rispetto all’uscita delle motivazioni della stessa.
Il 4 ottobre a Firenze se ne discuterà approfonditamente all’interno del convegno nazionale su “Malpractice, maltrattamenti e responsabilità professionale".
 
Luca Benci
Giurista, professore a contratto presso l’Università degli studi di Firenze

09 settembre 2013
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