“Sanità pubblica addio – Il cinismo delle incapacità”: non usa mezzi termini Ivan Cavicchi per metterci di fronte al declino del nostro Servizio sanitario nazionale. Un declino dovuto ad anni, decenni di tagli e di politiche aziendalistiche, che vedevano la sanità come un bancomat e il personale come un costo sul quale tagliare.
Un declino che, in assenza di interventi e riforme, pare inesorabile. Eppure, il libro si chiude con una nota di speranza: salvare la sanità pubblica, realizzando il sogno dell’articolo 32 della Costituzione, è ancora possibile. A una condizione: sciogliere il nodo della politica.
Secondo Ivan, infatti, non si può salvare la sanità pubblica se prima non si capisce cosa la mette in pericolo. E, per capirlo, non servono appelli, non serve fare apologia, ma serve critica e autocritica.
La critica a cui si riferisce Ivan è quella che Gramsci (che io so essere il suo vero maestro di pensiero) voleva fosse necessariamente spietata per essere davvero efficace.
Questo libro è il risultato di una critica politica alle politiche della sanità dell’ultimo mezzo secolo. E che critica! Quella di Ivan è un’arma tagliente, intelligente, competente, spregiudicata persino, che colpisce il lettore per colpire l’avversario. E l’avversario è sempre un mondo che non funziona come dovrebbe funzionare e che lui propone inesausto di cambiare.
La critica che fa Ivan alla sanità è affilata come un bisturi; e come un bisturi affonda nella carne per tagliare l’equivoco, il limite l’ignoranza, il non senso, l’errore, la fallacia, la malafede. Per tagliare, cioè, tutti quei vincoli che impediscono al progetto di attuarsi, all’idea di crescere.
Una critica di stampo gramsciano, appunto, che è una costante dei libri di Ivan. Per come lo conosco, non è uno che scrive libri tanto per scrivere ma è uno che scrive libri per dare battaglia. I suoi libri, nessuno escluso, vanno visti come armi nello scontro dialettico tra le idee. “Scontro” da intendere come lo intendevano i latini, nell’accezione di “concorso”.
Ivan è uno che combatte, con l’arma della critica, quello che secondo lui non funziona. Con la critica egli “concorre” al cambiamento che serve.
Di tutti i capitoli del libro, quello che mi ha colpito di più è il primo, nel quale si analizzano i problemi dell’art. 32 della Costituzione. Un articolo che lo stesso autore definisce un “tabù”, o forse un “totem”. È vero, del resto, che per noi medici, per noi professionisti sanitari, per noi ordinisti la Costituzione è la nostra guida strategica. Eppure, anche in questo caso, il bisturi affonda senza inutili e controproducenti pietismi.
L’analisi che fa Ivan dell’art. 32, per noi preziosissima, è rivolta alla politica ma anche a noi tutti, colpevoli di aver ridotto in qualche modo, anche per profondi limiti culturali, un articolo fondamentale (il diritto alla salute) a diritto potestativo, trasformando dunque un diritto forte in un diritto debole. Incapaci di interpretare questo diritto forte come un “meta-valore”, dal quale dedurre il cambiamento e le azioni per realizzarlo, per inverarlo.
Ha ragione, Ivan: di fatto, l’art. 32 è come se fosse stato banalizzato e depotenziato. E questa sua banalizzazione è stata la premessa per la sua privatizzazione e, quindi, per la sua negazione.
Lo ha ben spiegato in un suo articolo uscito il primo marzo scorso sul Manifesto: “anziché riformare per realizzare il nostro sogno costituzionale abbiamo controriformato il sogno”.
Questa frase è la chiave di volta di tutto il libro. In fin dei conti che cosa è un sogno se non un “meta-valore”, cioè un progetto la cui realizzazione dipende dai cambiamenti che saprà innescare e dalle condizioni che saprà creare?
Nel secolo scorso avevamo un sogno - l’art. 32 e la sanità pubblica - che, per essere realizzato, avrebbe avuto bisogno di creare le condizioni culturali, finanziarie e politiche giuste per tradursi in un pensiero e in una pratica di riforma.
Senza una riforma della realtà è ovvio che il sogno non può realizzarsi. Per tante ragioni non siamo però stati capaci di riformare davvero quello che avremmo dovuto cambiare. E allora, abbiamo controriformato il sogno.
Le mezze riforme, come le chiama Ivan riferendosi alla Legge 833 e poi alle riforme fatte negli anni 90 (la 502 e la 229) sono la dimostrazione di un progetto al quale si è di fatto rinunciato. È un dato innegabile.
Ma il punto, il “nodo” che il libro di Ivan pone e che a me sta particolarmente a cuore è decisamente strategico. Lui ci chiede un giudizio sulla strada fatta sino ad ora, perché senza questo giudizio non possiamo continuare. Capisco. Ci sta. Ma mi chiedo: siccome il giudizio storico - basta vedere come è ridotta materialmente la sanità - non può che essere un giudizio critico, siamo in grado, oggi, di restituire all’art. 32 il suo status di diritto fondamentale, di fare i cambiamenti che non abbiamo mai fatto, di evitare gli errori del passato, di restituire alla sanità pubblica la sua natura pubblica? Siamo in grado, in altre parole, di rieditare il sogno?
Se i riformatori di oggi non sono in grado di superare i limiti dei riformatori di ieri, la partita è davvero chiusa.
Se, al contrario, oggi noi siamo in grado di voltare pagina, di far tesoro dei fallimenti del passato, raddrizzando il tiro, abbiamo ancora una chance.
E Ivan, da inguaribile gramsciano, ci lascia con un messaggio di speranza: ci dice che sì, è possibile voltare pagina, recuperare gli errori del passato, definire una svolta riformatrice.
A una condizione: sciogliere, appunto, il nodo della politica.
E quale politica ci serve per rimettere in agenda il sogno dell’art. 32 e della sanità pubblica? Come farci dare un mandato dalla politica per riscrivere il nostro progetto riformatore? Come si scrive, e chi deve scrivere questo progetto?
Per voltare pagina, dice Ivan, bisogna convincere la politica. Come dargli torto?
Il giudizio di Ivan sulla politica percorre tutto il libro, ed è un giudizio molto severo. Alla sbarra non c’è la destra che oggi governa ma la sinistra che ha governato in precedenza la sanità, lasciandola nelle condizioni attuali. E c’è la sanità stessa, che non può essere assolta dalle sue responsabilità. Quindi, ancora una volta sarà la politica a decidere il nostro futuro. Come? Staremo a vedere. Il nostro auspicio, ma anche il nostro impegno, è che finalmente la politica comprenda che la sanità, e i professionisti che la animano, sono una risorsa sulla quale investire, e non costi da tagliare.
Un’idea che si sposa con la proposta di Ivan di definire la salute come ricchezza, fondendo l’art. 32 con i nuovi articoli della costituzione, il 9 e il 41 recentemente modificati, dedicati all’ambiente, in un nuovo concetto di sostenibilità.
Intanto, grazie a Ivan, ancora una volta, per il suo prezioso contributo, per la sua lungimiranza, per la sua passione, per il pensiero originale e unico sulla medicina, “Scienza impareggiabile”, e sulla sanità, patrimonio comune al quale non dobbiamo rinunciare.
Filippo Anelli
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