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Se l’autonomia differenziata va male, l’autonomia mal esercitata non va molto meglio

di Claudio Maria Maffei

E allora la domanda è: la capacità di un buon esercizio della autonomia regionale così com’è oggi come la si può far crescere? E’ evidente che la funzione di controllo centrale non funziona o comunque non basta

14 MAR -

Il tema della autonomia differenziata è stato trattato in modo molto critico qui su QS da molti punti di vista, da quello giuridico a quello politico-istituzionale. Da un punto di vista strettamente sanitario, si deve alla Fondazione GIMBE un Report sul regionalismo differenziato in sanità (pure presentato qui su QS) estremamente convincente sui rischi che l’autonomia differenziata porti ad un ulteriore aumento degli squilibri territoriali nel nostro paese in termini di qualità dei servizi e di equità in primo luogo. A questa conclusione il Report arriva analizzando gli accordi preliminari presi con il Governo Gentiloni dalle Regioni Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto nel 2018, accordi in cui sono presenti istanze definite nel Report addirittura “eversive” come la maggiore autonomia in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi o ritenute capaci di “mettere una pietra tombale sulla contrattazione collettiva nazionale e sul ruolo dei sindacati” come le richieste del Veneto in tema di contrattazione integrativa regionale per i dipendenti del SSN e di regolamentazione dell’attività libero-professionale.

A sostegno dei pericoli insiti nella proposta Calderoli, il Report GIMBE fa il punto sui due fenomeni che evidenziano i forti squilibri tra le diverse sanità Regionali in epoca pre-autonomia differenziata come la mobilità sanitaria e i risultati del monitoraggio delle performance regionali con la griglia LEA ed evidenzia come le Regioni che spingono di più per ottenere l’autonomia differenziata sono anche quelle con i migliori punteggi al monitoraggio dei LEA e con i saldi attivi di mobilità maggiori. E’ evidente come in una situazione di partenza di questo tipo l’autonomia differenziata aumenterebbe ulteriormente il divario tra Regioni “forti” e Regioni “deboli” ad esempio favorendo la mobilità degli operatori verso le Regioni capaci di offrire condizioni di lavoro da tutti i punti di vista migliori.

Sempre GIMBE nelle sue conclusioni invita a togliere la “tutela della salute” dalle materie su cui le Regioni possono richiedere maggiori autonomie e, in via subordinata, ad attuare il regionalismo differenziato in sanità con grande equilibrio avendo preliminarmente colmato il gap strutturale tra Nord e Sud del Paese, modificato i criteri di riparto del fondo sanitario e aumentando le capacità di indirizzo e verifica dello Stato sulle Regioni. Parto da quest’ultima raccomandazione di GIMBE per fare una breve riflessione sul fatto che queste tre pre-condizioni (la prima delle quali irraggiungibile in tempi utili per la politica e per i cittadini) ne richiedono una quarta che non è semplice né descrivere, né commentare, ma che a mio parere precede le altre tre: la capacità delle Regioni di esercitare la propria autonomia, quella che hanno dal 1978, anno di istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, e che nel 2001 con la modifica del Titolo V è ulteriormente aumentata.

L’argomento merita di essere approfondito e interpretato perchè altrimenti la banale considerazione che non possono essere i vagoni più lenti a condizionare la velocità dell’intero convoglio (che è poi più o meno uno dei punti di partenza delle richieste di autonomia differenziata da parte dei vagoni più rapidi) sarà difficile da smontare. A ragionare su questa differente capacità dei vari sistemi Regione (che includono dentro oltre all’Ente Regione, anche l’Università, i mondi professionali, la società civile, ecc.) a gestire le risorse assegnate per la tutela della salute ci aiuta la distinzione tra il fenomeno della mobilità sanitaria e quello del monitoraggio dei LEA. Mentre i flussi di mobilità sanitaria sono frutto di una disomogeneità nella struttura “fisica” dell’offerta che solo in tempi molto lunghi sarà difficile colmare (fra l’altro quella di confine non dovrebbe essere nemmeno considerata un problema), la differenza tra Regioni in termini di qualità dei servizi territoriali di prevenzione e distrettuale doveva e dovrebbe essere più facile da ridurre, essendo molto meno legata a fattori strutturali “hard” come le caratteristiche della rete ospedaliera. E invece semmai il divario tra Regioni se possibile in queste aree aumentano, come dimostrano pur con tutti i loro limiti i dati 2020 del Nuovo Sistema di Garanzia da quell’anno utilizzati per il monitoraggio della erogazione dei LEA (vedi Tabella).

E allora la domanda è: la capacità di un buon esercizio della autonomia regionale così com’è oggi come la si può far crescere? E’ evidente che la funzione di controllo centrale non funziona o comunque non basta. Proviamo a rispendere a domande come: perché le Case della Salute (oggi Case della Comunità) sono già sperimentate da anni solo in alcune Regioni? perché la sperimentazione degli infermieri di famiglia e di comunità è già diffusa e avanzata solo in alcune Regioni? perché la rete dei servizi per le demenze è a regime solo in alcune Regioni? Se riusciamo a rispondere a queste domande forse capiremo meglio perché alcune Regioni aspirino a una maggiore autonomia e perché in altre l’autonomia che già hanno venga “sprecata”. Se non si riesce a definire quali sono i determinanti “locali” che influiscono sulla qualità dei sistemi salute regionali mi sembra difficile ragionare sul loro livello di autonomia accettabile, fatto salvo il fatto che non va differenziato. E i determinanti locali sono soprattutto politici, ma non solo.

Claudio Maria Maffei



14 marzo 2023
© Riproduzione riservata


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