Dichiarare l’inesistenza di altri rapporti e di situazioni di incompatibilità configura l’ipotesi di occultamento doloso del danno all’Amministrazione sanitaria che, per ciò solo, si è tenuti a rifondere.
È giurisprudenza contabile assolutamente consolidata che la violazione di un preciso obbligo di verità, sotto forma di falsa o omessa dichiarazione, integri un’ipotesi di doloso occultamento della condotta produttiva di danno, che manifesta i propri effetti anche su un piano squisitamente processuale di decorrenza del termine di prescrizione individuato nella data della sua scoperta da parte del soggetto legittimato ad accertarsene.
Nel caso di specie, tale momento è stato identificato nella data di conclusione dell’istruttoria amministrativa, culminata in una nota, successivamente rielaborata e trasmessa al Procuratore regionale contabile dalla ASL.
In un precedente intervento ci siamo occupati della mancata richiesta di autorizzazione allo svolgimento di incarichi extra da parte del sanitario alla propria amministrazione che genera una forma di responsabilità amministrativa di natura risarcitoria del danno così determinato.
Si ricorderà che il medico che presta servizio presso un’azienda sanitaria, anche al fine di esercitare collaborazioni professionali occasionali, non può svolgerle liberamente, ma ha il preciso obbligo di chiedere la preventiva autorizzazione ai sensi dell’art. 53 d.lgs n. 165/2001, dovendo, in difetto, versare all’Amministrazione l’intero compenso retribuito anche a fronte di una prestazione regolarmente espletata
Al carattere omissivo che caratterizza la condotta del sanitario in tale fattispecie, si contrappone quella odierna contrassegnata da un comportamento commissivo assolutamente contrario alla legge: la dichiarazione di inesistenza di altri rapporti e di situazioni di incompatibilità che integra una condotta consapevole e volontaria tesa ad occultare elementi rilevanti che hanno determinato il pregiudizio erariale azionato dai giudici contabili.
Anche se entrambe le ipotesi portano alla medesima conclusione – ovvero al riversamento delle somme percepite – la differenza, esaminata da altra angolazione, è di non poco rilievo, non foss’altro per le conseguenze, innanzitutto penali, per aver dichiarato il falso, ma anche perché incide sul rapporto di fiducia con l’Amministrazione di appartenenza.
Nel primo caso la sanzione scaturisce direttamente dalla mancata richiesta dell’autorizzazione che non ha consentito all’amministrazione di operare gli accertamenti necessari a verificare la sussistenza di cause di incompatibilità, assolute e/o relative che fossero; in quello odierno, invece, c’è un intento fraudolento “frutto della cosciente volontà di occultare, attraverso l’omessa indicazione del proprio “status” lavorativo, gli elementi di condizione soggettiva che, ove dichiarati, avrebbero inibito l’instaurazione e la perpetuazione di siffatti impieghi”, come dicono i giudici contabili.
La differenza tra le due fattispecie è di non poco momento per gli interessati perché, se la mancata richiesta di autorizzazione comporta l’incameramento delle somme percepite in apposito capitolo del bilancio dell’ente a beneficio del fondo di produttività o di fondi equivalenti, la falsa attestazione, liberamente sottoscritta, di non avere altri rapporti lavorativi pendenti ha una configurazione in più rappresentata dalla previsione di sanzioni penali per la falsità in atti, nonché dalla sanzione della decadenza dall’impiego e/o rapporto lavorativo ai sensi degli artt. 60 e segg. d.p.r. n. 3/1957, oltre che dalla disciplina di cui all’art. 53 d.lgs. n. 165/2001 (che impone la previa autorizzazione per lo svolgimento di ulteriori attività lavorative)
È stato cioè verificato che il medico nella piena consapevolezza di avere una pluralità di rapporti lavorativi con il servizio sanitario, non si è fatto scrupoli nel rendere dichiarazioni oggettivamente non veritiere (non corrispondendo alla realtà dei fatti l’assenza di ulteriori rapporti e di situazioni di incompatibilità) essendo chiamato, prima dell’inizio di ciascun rapporto, a dichiarare la propria posizione lavorativa.
Quindi, non ha semplicemente omesso di dichiarare situazioni di incompatibilità, ma ha più volte sottoscritto asserzioni con cui ha attestato l’inesistenza di altri rapporti o situazioni incompatibili con la sottoscrizione di un rapporto lavorativo dirigenziale medico a tempo determinato con l’azienda sanitaria di appartenenza, assumendosene anche ogni giuridica responsabilità penale, attesa la sottoscrizione palese che recita: “consapevole delle sanzioni penali previste nel caso di dichiarazioni non veritiere e falsità negli atti richiamate dall’art. 76 del DPR n. 445/2000 dichiara sotto la propria responsabilità quanto segue ……..”.
La responsabilità in tali casi resta a totale carico del soggetto non potendosene estendere la partecipazione all’Azienda alla quale, le puntuali dichiarazioni del medico rese in sede di assunzione, dichiaratamente sotto la propria responsabilità penale, hanno inibito qualsivoglia iniziativa di verifica ed eliminato qualunque elemento che la obbligasse a verificare l’eventuale falsità delle stesse.
Tanto perché è stato ritenuto che le dichiarazioni così effettuate siano in grado di assicurare un sufficiente livello di attendibilità a beneficio dell’Amministrazione sanitaria che le ha ricevute, che non conforta neppure nell’ipotizzare un’eventuale violazione dell’art. 71 d.p.r. n. 445/2000 per non avere verificato la veridicità delle dichiarazioni rilasciate dal medico in quanto ai sensi di tale norma a carico delle Aziende è previsto unicamente una prescrizione di operare controlli idonei – anche mediante lo strumento ordinario in sede di pianificazione dei controlli che è il campionamento – e che questi controlli siano proporzionali ai rischi, oltre che all’entità dei benefici, riservandone la sua doverosità unicamente ai casi di ragionevole dubbio.
Nel caso in commento ogni ragionevole dubbio sulla veridicità di quanto dichiarato dal medico era stato spazzato via dalla sottoscrizione delle affermazioni dallo stesso effettuate.
Nel caso in commento, il medico ha posto in essere la violazione di norme imperative che si è tradotta in una situazione di incompatibilità assoluta che ha intaccato sul nascere il rapporto lavorativo con l’Azienda sanitaria, configurandosi, quindi, sin dall’inizio come dotato di lesività erariale in quanto privo di causa per effetto della violazione assoluta degli obblighi di servizio (nel che, si ricorda, si sostanzia la responsabilità amministrativo-contabile), fondamentalmente basati su fedeltà ed esclusività della prestazione che non tollera la pluralità di rapporti lavorativi.
Giuridicamente si è, quindi, avuta la c.d. rottura del sinallagma contrattuale, ovverosia la lacerazione del rapporto corrispettivo esistente tra prestazione (lavorativa) e controprestazione (retribuzione) che comporta quale conseguenza la nullità radicale del contratto di lavoro con travolgimento del relativo rapporto anche sotto il profilo delle conseguenze economiche.
La registrata violazione di una norma fondamentale quale quella sulle incompatibilità (che, nel caso di specie, è assoluta), in ambito sanitario trova disciplina nell’art. 4 della legge n. 412/199 e comporta una situazione di incompatibilità preclusiva della legittima costituzione del rapporto di lavoro andando ad intaccare la corrispettività dello stesso sin dall’inizio rendendo, così, senza titolo tutte le erogazioni stipendiali percepite dal medico che, per ciò solo, è ora tenuto a rifonderle.
E, l’illiceità della causa ha in sé un altro aspetto di non poco momento ai fini della quantificazione del danno da rifondere all’amministrazione sanitaria, ovvero l’impossibilità di invocare l’applicazione dell’art. 2126 c.c. ai sensi del quale il giudice contabile può considerare i vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione dallo svolgimento dell’attività professionale da parte del medico.
Non in questo caso perché è stata posta in essere in violazione di norme dettate a protezione di interessi basilari dell’ordinamento.
Lo hanno dichiarato apertamente i giudici contabili d’appello laddove – con una motivazione che si fonda sul mancato rispetto dei canoni di giustizia di cui ai principi costituzionali in tema di azione amministrativa basata proprio sul ridetto principio di corrispettività – si sono così espressi “non può per sé assumere rilievo e concretarsi in un vantaggio economico giuridicamente apprezzabile in sede giuscontabile l’attività prestata da chi ha prodotto false dichiarazioni e non si è fatto scrupolo di trarre in inganno l’amministrazione sanitaria inficiando la validità del rapporto sin dall’origine, ponendosi in antitesi con l’essenza degli obblighi di servizio alla base del rapporto di impiego pubblico”.
La sentenza di appello è stata, quindi, confermativa di quella di primo grado che ha condannato il medico a rifondere tutti i compensi indebitamente percepiti dalla ASL, medio tempore disciolta, e dalle altre strutture sanitarie della Regione per l’ammontare complessivo di € 533.286,17 per l’espletamento di incarichi incompatibili e in violazione del regime di esclusività come avanti configurato (per il periodo 2002-2011, il soggetto aveva contemporaneamente svolto incarichi professionali nella veste di dirigente medico dipendente a tempo determinato e nella veste di medico convenzionato per la continuità assistenziale e per l'assistenza primaria del Servizio Sanitario in due Regioni limitrofe; al termine del precedente contratto di impiego a tempo determinato con l'ASL, scaduto nel 2005, continuava a svolgere l'incarico di dirigente medico della disciplina di igiene e sanità pubblica, attraverso un contratto di collaborazione continuata e continuativa, non essendo possibile, all'epoca, rinnovare il contratto di lavoro a tempo determinato, fino all’agosto 2006. Data nella quale stipulava un ulteriore – ed ultimo – contratto di lavoro a tempo determinato che, attraverso varie proroghe, terminava nel 2011.
Anche in tale ultima circostanza il medico dichiarava l’assenza di cause di incompatibilità).
Fernanda Fraioli