Potter aveva presentato la bioetica come un ponte verso il futuro, una nuova sapienza in grado di armonizzare il sapere scientifico e quello umanistico. A più di cinquanta anni dalla sua proposta, oggi possiamo cambiare metafora e dire che la bioetica ora si presenta come una palafitta, ossia un edificio che sta sull’acqua che fluttua, cioè è un sapere che non si radica su fondamenti certi.
È finito il tempo in cui c’erano certezze solide, eterne e incrollabili: stanno saltando le strutture rigide dei paradigmi teorici tradizionali e sempre più frequentemente constatiamo che alcuni credenti cattolici sono favorevoli al suicidio medicalmente assistito, come alcuni fautori della bioetica secolare sono contrari alla gravidanza per altri. Ancora più variegate e diverse le posizioni sui temi legati alla sostenibilità sociale ed ambientale, dove il bisogno di abitare insieme la casa comune sta alla base di convergenze trasversali: nulla è più solido e netto.
Nella sua breve storia, la bioetica si è confrontata con la rivoluzione biotecnologica e con le richieste dei diritti civili, mentre ora è sempre più interpellata dai diritti sociali e dallo sviluppo sostenibile, in un mondo diviso e in conflitto. Ecco perché la bioetica si è spostata su palafitte.
Abitare le antinomie
Un esempio ante litteram di un’ottima sintesi bioetica è l’art. 32 della Costituzione italiana in cui convive la visione liberale e quella comunitaria, infatti si afferma che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Questa sintesi generale deve poi concretizzarsi nelle specifiche normative, che aprono il dibattito su come armonizzare l’impegno solidaristico e il rispetto dell’autonomia.
La bioetica su palafitte abita il terreno accidentato delle antinomie, trova, prima di arrivare alla soluzione giuridica, i valori in gioco, prospetta soluzioni rispettose delle soggettività coinvolte. Lo abbiamo visto recentemente con il dibattuto sulle misure di contenimento della pandemia.
Abitare le emergenze
La bioetica su palafitte abita le emergenze – ambientali, sociali, sanitarie – quelle situazioni in cui è a rischio la vita dei singoli e delle comunità, quelle situazioni in cui non si può ragionare solo in prospettiva individuale, in cui emerge quanto le nostre vite siano connesse.
È la tradizione bioetica di Potter, Jonas, ten Have, è la tradizione che sottolinea la dimensione relazionale, la responsabilità e l’esigenza di delineare uno sviluppo sostenibile, definito come “lo sviluppo che soddisfa i bisogni della presente generazione senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri” (Commissione Brundtland, Our Common Future, 20 marzo 1987).
La bioetica contribuisce a far sì che queste dimensioni – ambientale, economica e sociale – si coniughino in un processo continuo, in un equilibrio dinamico che ci consenta di vivere dignitosamente la nostra vita nel pianeta.
Il tema della sostenibilità pone la questione del rapporto tra viventi umani e non umani, c’è il problema di chiarire chi sostiene e chi è sostenuto e in che modo si crea il circolo di sostenibilità. Secondo la linea antropocentrica moderata, sono i soggetti responsabili che contribuiscono all’ambiente sostenibile e allo sviluppo sostenibile.
Abitare la sofferenza
La bioetica su palafitte abita la sofferenza e il fine vita. L’11 febbraio scorso, Maurizio Mori nel suo Suicidio assistito e Ippocrate. Perché la richiesta di “Mario il marchigiano” è una “vittoria” (in “Quotidiano sanità”) descrive la situazione di chi si trova a vivere senza qualità di vita, come un bagnasciuga, una sorta di situazione infernale in cui non c’è possibilità di miglioramento perché il malcapitato si trova inondato sempre di più dall’oceano senza la possibilità di uscire. Mori presenta la morte come una forma di liberazione dal tormento, e definisce l’aiuto a morire in queste situazioni come una forma di solidarietà. Nei suoi calcoli, la vita di qualità (la collina) vale +1, la condizione infernale (il bagnasciuga) vale -1, la morte (l’oceano) vale 0, quindi quando non è possibile stare in collina è meglio l’oceano perché il bagnasciuga è invivibile.
Un compito della bioetica è anche quello di abitare il bagnasciuga, appellarsi al principio giustizia affinché vengano costruite solide palafitte, vengano cioè tutelati i diritti sociali perché senza i giusti sostegni anche chi sta in collina può trovarsi in situazioni infernali. Fuor di metafora sono inaccettabili i tempi di attesa delle prestazioni nella sanità pubblica e denunciare ciò è il primo compito della bioetica.
Palma Sgreccia
Vicedirettrice del Master in Bioetica, Pluralismo e Consulenza Etica