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Forum 180. Montibeller: “Ristagno e progresso nella psichiatria”

di Marcello Montibeller

Cavicchi sembra riconoscere la 180 come un prodotto fondamentale della cultura medica italiana e, al contempo, per usare le sue parole, come una “sinfonia incompiuta” che, nel suo essere incompiuta, rischia, per l’autore, di prestare il fianco a una pericolosa controriforma; l’individuazione della similitudine sta tutta, per quanto mi concerne, nella rilevazione di questa tensione tra critica e tutela di un patrimonio culturale

03 NOV -

“Oltre la 180” di Ivan Cavicchi, esce a quarantaquattro anni di distanza dall’approvazione della legge 180 del 1978, che aboliva l’istituzione manicomiale dall’ordinamento sanitario, redatta da Orsini ma largamente ispirata dal lavoro teorico e dalla pratica clinica di Franco Basaglia. Il titolo del mio contributo richiama volutamente quello di un piccolo lavoro di Rosa Luxenburg, intitolato Ristagno e progresso nel marxismo, edito in Italia da Laboratorio Politico nel 1994.

Le ragioni di questo richiamo sono molteplici ma possono sommariamente essere ridotte a due: come nel caso della Luxenburg, Cavicchi elabora un bilancio di un’esperienza storica nel suo complesso, come nel caso dell’autrice polacca lo elabora da una prospettiva che tendo a intendere come ‘interna’: quella di voler riconoscere la 180 come un prodotto fondamentale della cultura medica italiana e, al contempo, per usare le sue parole, come una “sinfonia incompiuta” che, nel suo essere incompiuta, rischia, per l’autore, di prestare il fianco a una pericolosa controriforma; l’individuazione della similitudine sta tutta, per quanto mi concerne, nella rilevazione di questa tensione tra critica e tutela di un patrimonio culturale.

L’opera può essere affrontata sotto diversi aspetti, perché diverse e variegate sono le problematiche che affronta, tuttavia una in particolare mi sembra interessante discutere: quella eminentemente epistemologica.

Due elementi mi paiono rilevanti per affrontare questa discussione: l’affermazione della non presenza della questione della complessità, epstemologicamente intesa, nella filosofia della psichiatria basagliana, e l’affermazione della riduzione della scienza a ideologia in quell’esperienza. Perché lo spirito rivoluzionario della legge 180 sia salvato e in qualche modo pienamente inverato, sostiene l’autore, occorre che tanto la questione della complessità quanto la questione della scienza siano integrate con il primum movens politico, nel senso più ampio e alto del termine, della riforma.

Senza voler scadere nel teoreticismo astratto, mi sembra, tuttavia, di poter affermare che questa impostazione possa sollevare tre ordini di domande:

Poiché il libro di Cavicchi, pur nei corretti limiti imposti da una rigorosa prosa scientifica, non sembra far mistero di porsi nell’alveo di una tradizione storico-politica determinata, mi sembra opportuno affrontare queste domande a partire da alcune considerazioni sul ruolo tanto della scienza per la politica, quanto della politica, o più in generale delle prassi e dei rapporti sociali umani, nella formazione del pensiero scientifico, nella storia del pensiero socialista.

Intendo prendere come punto di partenza una riflessione svolta da Karl Marx e Friedrich Engels ne L’ideologia tedesca del 1848: “La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata alla attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni [ …] appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. […] Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, cosi come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese”.

Se si assume questo punto di vista si giunge direttamente alla conclusione che anche la Scienza non può che essere il prodotto di un determinato stadio si sviluppo delle forze produttive e delle relazioni sociali; da qui si giunge facilmente a dare ragione a Basaglia nel suo affermare ripetutamente che “la scienza è politica” e che la prassi e la relazione non possono non dominare sulla tecnica.

Il punto centrale della questione, ampiamente discusso nel libro, è la svolta che si impone alla tradizione fenomenologica in psichiatria: la raffinata descrizione della soggettività è in fin de conti il grimaldello della trasposizione alla psicologia di ciò che il filosofo di Treviri affermava delle formazioni del pensiero; non è possibile dissecare neppure i vissuti personali, e quindi le condizioni di salute mentale, dal sistema di relazioni sociali che le producono e quindi la “restituzione della soggettività” al paziente non può non passare per la lotta a quelle forme di oppressione della sua unicità che ne determinano la sofferenza e che l’istituzione manicomiale non può, nella sua desoggettivizzazione, non aggravare.

Si tratta di una conversione dell’epistemologia in ideologia? Sarei più portato a pensare che si tratti, invece, di un modello epistemologico determinato verso cui si può, semmai, sollevare un’obiezione di riduzionismo sociale.

Se questo è il punto di vista che adottiamo, mi viene allora facile concordare con l’autore che il tema della complessità, ormai ineludibile, giunga a scombinare qualche carta: il fattore sociale è inevitabilmente uno, ma uno tra i molti, elementi di cui si deve tenere conto.

La sinfonia si compie, per parafrasare un’efficace espressione del libro, nel momento in cu essi vengono integrati. In tal senso, l’integrazione procede anche attraverso l’abbattimento di steccati che concernono il rapporto tra la liberazione sociale del paziente, le varie forme di psicoterapia, le numerose conoscenze acquisite in termini di neuropsicologia e neurofarmacologia.

Questo fatto, però, porta a una retrocessione, per così dire, del problema sociale o si limita a riconfigurarlo? Propendo per la seconda tesi.

Provo a guardare più da vicino il modo in cui la razionalità medica risponde, dal punto di vista metodologico, alla complessità. Credo che il paradigma della medicina basata su prova di efficacia, o Evidence Based Medicine (d’ora in avanti EBM), per gli autori anglosassoni, sia il terreno adatto per affrontare il tema.

Come opportunamente messo in evidenza da Maya Goldenberg, il dibattito sull’EBM ha visto una frattura tra fedeli, per i quali il responso delle meta-analisi e degli RCT (studi clinici randomizzati, ndr) è il punto di arrivo dell’indagine medica, e iconoclasti, per i quali rappresenta una forma cieca e vuota di evidenza statistica se non addirittura l’affermazione di un sistema di potere medico. Uscendo dai manicheismi credo che si possa fare un bilancio più equilibrato di quella che sembra, in fin dei conti, una buona strada di integrazione della complessità.

Il modello EBM è in fin dei conti un modello intenzionalmente acausale: proprio in ragione della complessità dei fenomeni che ineriscono la salute sceglie di affidare la prassi clinica non a modelli patogenetici da soli quanto all’evidenza statistica a supporto delle scelte terapeutiche, gerarchizzata secondo un ordine preciso.

Si tratta di una forma piuttosto solida di evidenza e sarebbe antistorico, e in qualche modo segno di irrazionalismo, non affidarsi alle conclusioni che si ottengono per questa via. Questo atteggiamento correttamente razionalistico espunge forse il ruolo della politica dalla scienza? Tutt’altro: si limita a definirne meglio il campo di azione. Sostanzialmente tautologico è notare che otteniamo dagli studi clinici randomizzati solo risposte alle domande che abbiamo posto alla loro base nel processo di design sperimentale e che otteniamo, per ovvia conseguenza, dalle mata-analisi di quegli studi (che costituiscono il grado più alto di evidenza secondo il modello EBM), solo risposte all’insieme delle domande sollevate.

Pare abbastanza ovvio constatare che non è affatto politicamente o socialmente neutrale la scelta di queste domande ed è proprio qui che ritorna ad avere un ruolo centrale la politica, e quindi anche la formazione ideologica: quali studi decidiamo di compiere. Quanto spazio diamo all’indagine sui determinanti sociali, i cui esti possono essere in potenziale contrasto, per dirla con Marx, con le forme di produzione e i rapporti sociali del sistema in cui viviamo, in rapporto allo spazio che diamo agli studi di neurofarmacologia?

Come si formano le evidenze su cui dobbiamo fondarci? Se dobbiamo ripensare, come dice l’autore, a una formazione non dogmatica degli operatori, credo si debba ripensare anche a una ricerca non dogmatica delle evidenze, perché la sinfonia si porta a compimento, per rimanere nella metafora, solo se si integra il suono di tutti gli strumenti.

In un sistema economico e sociale dato questo coincide con un’azione politica e riallaccia il legame tra ricerca scientifica e lotta politica, ciò in cui mi sembra di trovare ancora oggi le ottime ragioni di quel processo culturale che fu alla base della legge 180 del 1978.

Marcello Montibeller

Dottore di ricerca in filosofia e teoria delle scienze umane (Dottorato Europeo, cotutela Roma Tre - Innsbruck), medico di medicina d'urgenza presso ospedale Augusto Murri di Fermo

Leggi gli altri interventi: Fassari, Cavicchi, Angelozzi, Filippi, Ducci, Fioritti, Pizza, d'Elia, Cozza, Peloso, Favaretto, Starace, Carozza,Thanopulos, G.Gabriele, Quintavalle, Nicolò, Ceglie, Lasalvia



03 novembre 2022
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