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Forum 180. Giuseppe Ducci: “Perché vedo il bicchiere mezzo pieno”

di Giuseppe Ducci

Forse io vedo sempre il bicchiere mezzo pieno. Ma, rispondendo alla peroratio finale del libro di Cavicchi, sono sinceramente convinto che i DSM di questo paese siano in grado di offrire oggi ai cittadini una proposta di intervento unitaria, fondata sulle conoscenze scientifiche, comprese le scienze sociali ed economiche, da coniugare con le competenze che derivano dalla pratica clinica e dall’analisi delle organizzazioni per la Salute Mentale

05 OTT -

Oltre la 180 è un libro provocatorio e stimolante, come è da sempre nello stile di Ivan Cavicchi.

Come Direttore da molti anni di un grande Dipartimento di Salute Mentale (ASL Roma 1, 1.065.000 abitanti, 800 operatori, 23.000 pazienti in carico, compresi i bambini e le persone con dipendenza), vorrei provare ad arricchire il dibattito aperto dal libro presentando il punto di vista di chi lavora nei servizi di Salute Mentale (nel mio caso, dal 1982) e ha visto prodursi enormi cambiamenti, tali da rendere ormai la legge 180 solo un punto di riferimento storico e culturale (al di là della normativa sul TSO, tuttora vigente), ma sicuramente superata dalla nuova epistemologia (pensiamo al paradigma del neuro-sviluppo e al ruolo dell’epigenetica), dall’attuale epidemiologia, dalla clinica, dall’organizzazione e dalle prospettive di sviluppo.

Chi sono i pazienti oggi?
Certamente non sono più quelli di 40 anni fa e riflettono i cambiamenti che sono avvenuti in questi decenni. Sono persone molto più giovani con un uso massiccio di sostanze, sono giovani dis-regolati (e la dis-regolazione emotiva è una dimensione emergente, psicopatologica e del neuro-sviluppo), sono anziani con patologie organiche concomitanti, sono autori di reato, sono stranieri. Una popolazione nuova che ci richiede un cambiamento totale di approccio, di organizzazione, di competenze.

Oggi utilizziamo spesso il termine di co-occurring disorders per descrivere quadri clinici diversi non assimilabili alla sommatoria di più patologie, ma che esprimono nuove configurazioni, come quella dei consumatori di sostanze (non necessariamente con patologia di dipendenza), in cui i sistemi di regolazione, di pianificazione e di gratificazione sono radicalmente trasformati.

Abbiamo giovani che manifestano disturbi molto precoci, erratici e variabili, dai comportamenti autolesivi, all’anoressia, al ritiro e all’abbandono scolastico, alla dipendenza da internet e da social, al cyber bullismo, all’hikikomori. Il periodo di chiusura della scuola per il COVID19 ha sottratto a questa generazione di adolescenti anche l’esperienza relazionale fondamentale della co-regolazione tra coetanei, come si realizza nella scuola, contesto normato e finalizzato per eccellenza.

La presenza di una popolazione crescente di pazienti autori di reato è sotto gli occhi di tutti. L’importante riforma della sanità penitenziaria, che ha restituito i diritti costituzionali alle persone detenute, ha previsto il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. È stato un cambiamento radicale che ha richiamato la responsabilità dei Servizi Sanitari, ma che non ha dato strumenti normativi e organizzativi sufficienti a garantire risposte adeguate soprattutto ai pazienti con disturbo mentale perché non ha cambiato il codice penale, e ha riportato la salute mentale a compiti di custodia.

Gli anziani sono sempre di più e ciò richiede collaborazione con altre discipline ed altri servizi.

Gli stranieri presentano disturbi correlati a traumi vissuti durante o prima la fase migratoria e disturbi connotati da valenze culturali diverse.

A quali norme ci riferiamo e come si riflettono sull’offerta dei servizi?
Certamente non sono solo le norme che determinano l’offerta dei servizi. In sanità, un ruolo cardine è dato dalla competenza professionale, e quindi dai paradigmi e saperi e dalle prassi operative condivise dalla comunità scientifica.

Ma le norme determinano il quadro di riferimento, i confini e le responsabilità entro cui si realizzano le pratiche cliniche. Nel libro si parla molto della legge 180 e della programmazione che discende dai Progetti Obiettivo, ma dobbiamo considerare le norme successive. In particolare, la riforma del Titolo V della Costituzione, che ha sancito la competenza regionale nell’organizzazione dei servizi sanitari, ormai molto difformi su scala nazionale; la riforma della sanità penitenziaria, cui abbiamo già accennato, che ha impattato con forza sulla visione e sulla mission dei servizi; il Piano di Azione Nazionale per la Salute Mentale del 2014, che ha definito livelli e modalità di intervento; le Raccomandazioni per il Trattamento dei Disturbi Gravi della Conferenza Stato Regioni del 2015, che hanno fissato obiettivi e indicatori sui quali costruire in percorsi di cura locali.

E che dire poi delle norme sulle droghe e sull’addiction? In questo settore (ancor più di quello della tradizionale salute mentale) le norme del Testo Unico del 1990 e della Legge e Accordi Stato Regione del 1999 hanno definitivo puntualmente il funzionamento dei servizi, le reti e le dotazioni previste. In una prospettiva globale di salute mentale (non di psichiatria), non è possibile fare riferimento ad una sola norma e non prenderle in considerazione nel loro complesso, con le loro contraddizioni reciproche e i loro specifici punti di forza.

Le organizzazioni sanitarie si costruiscono poi sulla loro capacità di essere permeabili al contesto, ossia di coglierlo e al tempo stesso modificarlo. Nelle nostre organizzazioni, inserite in reti sempre più ampie, la flessibilità è una qualità inalienabile per non diventare inutili o obsolete, ossia incapaci di rispondere ad una domanda. E, soprattutto, le organizzazioni a forte componente professionale sono connotate dalla cultura (o dalle culture) dei suoi addetti.

Esiste e quale sarebbe la cultura della salute mentale?
Sicuramente esistono più culture sulla salute mentale e Oltre la 180 rappresenta e descrive questa realtà, ma con un occhio molto esterno. Soprattutto esiste oggi una cultura diffusa in sintonia con le conoscenze e una cultura più legata alle prassi operative. La distanza tra conoscenze e prassi, sia in termini di tempo di applicazione che di contenuto, è spesso ancora troppo ampia, con un alto rischio di autoreferenzialità, purtroppo presente nel nostro ambito. Ma molti DSM, come quello che dirigo, hanno l’obiettivo qualificante di ridurre questa distanza.

Va superata la visione dualistica di mente e corpo, di derivazione cartesiana, che ha visto contrapposto il biologico allo psichico, determinando tra l’altro un antagonismo banale tra le conoscenze medico-psichiatriche e quelle psicologiche. Ridurre la cultura della salute mentale a una questione di interesse esclusivamente psichiatrico rischia di non cogliere l’importanza di una visione più complessa, a cui concorrono molte discipline e professionalità.

Oggi esiste un consenso generale sul ruolo delle neuroscienze affettive e sociali che ci hanno avvicinato (o riavvicinato) ad una visione unitaria dell’individuo. Da questo elemento centrale, ne sottolineo altri tre: l’identificazione nel 2013 del Fattore psicopatologico generale o fattore P, la conoscenza delle traiettorie del neuro-sviluppo per tutti i disturbi mentali, il ruolo delle esperienze precoci e dell’epigenetica.

La dis-regolazione emotiva, infine, si pone oggi come nuova dimensione del neuro-sviluppo e funge da disorganizzatore nosografico e modificatore delle traiettorie evolutive.

È certamente vero, come nota Cavicchi, che in Italia esistono prassi molto diverse, ma questo accade in tutto il mondo ed è dovuto anche alla complessità, alla interdisciplinarietà e al valore etico e normativo della nostra disciplina. Ma la contrapposizione tra antipsichiatria e psichiatria è ormai un fenomeno marginale e antico, a fronte di una prospettiva di salute mentale che unifica tutte le professioni in una prospettiva epistemologica sostanzialmente unitaria, fondata sulle conoscenze.

A quale organizzazione ci riferiamo?
Il Dipartimento di Salute Mentale, oggi, è un contenitore/collettore di Unità Operative oppure ha una funzione propulsiva, di analisi e di orientamento? Sicuramente c’è un’ampia varietà e non basterebbe una nuova 180 o altre regole a rendere del tutto omogenei i Dipartimenti[1].

La componente individuale determina grandi differenze perchè la leadership e i processi decisionali sono un riflesso delle caratteristiche delle persone. Tuttavia, negli ultimi anni la grande maggioranza dei Dipartimenti di Salute Mentale italiani ha saputo e potuto realizzare organizzazioni e offerta dei servizi adeguate e rispondenti alla domanda di salute, seppur con limitate risorse disponibili, mentre altri, pochi, manifestano maggiori difficoltà o crisi profonde.

Il grande cambiamento culturale è fondato sul presupposto che i livelli di adeguatezza non debbano essere ascrivibili alla bravura di singoli, ma alla visione e all’organizzazione del Dipartimento stesso. Non abbiamo bisogno di equilibristi, così come vengono identificati nel libro da Ivan Cavicchi, ma di leader che siano dotati dell’arte di comandare, sempre nella definizione di Cavicchi, e che orientino i DSM al lavoro per progetti.

Il DSM che voglia orientare risposte ad una domanda di salute deve infatti saperla leggere. Deve quindi dotarsi collettivamente di strumenti per conoscere quale siano oggi le persone che necessitano di cura, dove esse siano, dove debba essere loro garantita una risposta. In altri termini, deve essere un Dipartimento in ascolto, flessibile e orientato ad obiettivi. E deve saper trasformare in prassi operative le conoscenze, deve partecipare (e fare) ricerca e deve formare il proprio personale in modo coerente e funzionale alla visione del Dipartimento.

Come dice Ivan Cavicchi in Oltre la 180: “Oltre agli standard esistono quelle che genericamente gli inglesi chiamano pattern cioè ‘disposizioni’, ‘esempi’, quindi stili, riferimenti, riscontri, schemi operativi, griglie che aiutano l’operatore ad agire nella complessità, a capire e a fare. Occorre ricordare che il termine “pattern” può essere usato anche come sinonimo di “texture”, quindi di “trama”. Spesso le storie del malato sono “trame” che l’operatore deve comprendere e spesso le trame da comprendere hanno tanto delle singolarità quanto delle regolarità osservabili. Hanno “disegni” da interpretare.”

Il modello di lavoro diventa quindi un lavoro per progetti, progetti che offrano soluzioni operative alle criticità del sistema e progetti di cura che rispondano alla domanda dei singoli. Non più quindi un lavoro organizzato per pacchetti di interventi o prestazioni prestabilite, in cui la domanda è esclusivamente determinata dall’offerta. Il lavoro per progetti prevede la ridefinizione periodica di obiettivi, metodi, strumenti, tempi, risorse e soprattutto prevede la costante verifica dei risultati attesi. Tale impostazione è applicabile sia al servizio nel suo insieme sia al trattamento del singolo paziente.

I luoghi di cura variano e si modulano in funzione della domanda: quindi non più solo ambulatorio o ospedale. In questo, i servizi per le dipendenze hanno dato un forte contributo con le esperienze della riduzione del danno e della riduzione dei rischi. Il servizio non coincide con una struttura (ambulatorio, centro diurno, residenza), ma si realizza nei luoghi necessari e di vita (la casa, la scuola, la strada, il lavoro, ecc.).

Un esempio di lavoro per progetto appena avviato nel DSM Roma 1 è rappresentato dal Polo Cassia, che è un progetto di intervento territoriale molto vicino al tema delle prassi polisemiche, che Cavicchi descrive nel suo libro. Siamo partiti due anni fa dalla constatazione di non essere in grado di cogliere in modo unitario l’aumento di incidenza dei nuovi disturbi in co-morbilità, per la parcellizzazione della domanda di salute espressa da molti pazienti che trovava risposta in più servizi (CSM, Dipendenze, Disturbi del Comportamento Alimentale, TSMREE, Adolescenza). La risposta non poteva più ridursi all’integrazione e collaborazione tra servizi, programmando riunioni periodiche e condivisione di informazioni. Dovevamo andare oltre, costituendo un’èquipe unica di valutazione e di presa in carico, senza perdere la competenza professionale dei singoli servizi di provenienza. Il Dipartimento ha così potuto svolgere la funzione di orientare, ma anche di riorganizzare la struttura fisica del luogo. Al paziente non interessa da quali servizi i singoli professionisti provengano, ma in questo modo possiamo evitare frammentazioni e duplicazioni (lo psichiatra del SerD e lo psichiatra del CSM, lo psicologo del CSM e lo psicologo del DCA, ecc.).

Un altro esempio è l’organizzazione (in questo caso coincidente con un’Unità Operativa) del servizio interno al carcere di Regina Coeli, a Roma: abbiamo eliminato la separazione tra salute mentale e dipendenze. I singoli professionisti intervengono in funzione del quadro clinico complessivo. In quest’ambito il riferimento alla normativa delle dipendenze per le misure alternative alla detenzione ha aperto la strada a trovare soluzioni cliniche analoghe per la salute mentale.

Potrei citare tanti altri progetti del DSM Roma 1 che vanno in questa direzione: il SaMeP (Salute Mentale Peri-natale) che si rivolge a tutte le donne, dal pre-concepimento alla gravidanza, fino ai 12 mesi post-partum; l’Assistenza Domiciliare Programmata che garantisce il supported housing a casa, e non in strutture sanitarie; i molti progetti presentati per diversi bandi e che ricevono finanziamenti ad hoc su particolari tematiche, come l’Autismo, Il Disturbo da Gioco d’Azzardo, la Prevenzione in ambito universitario, ecc.

Il DSM, come nodo di una più vasta rete territoriale, rappresenta un attore chiave nella capacità di leggere i cambiamenti, di elaborarli e di contribuire a modificare l’ambiente, in una interrelazione continua. Il ruolo di cura si esprime così nella possibilità di coniugare le conoscenze con l’azione, il singolo paziente con la sua rete, il servizio con il territorio, il professionista con una comunità scientifica e di pratica.

Forse io vedo sempre il bicchiere mezzo pieno. Ma, rispondendo alla peroratio finale di Oltre la 180, sono sinceramente convinto, anche attraverso le iniziative della Società Italiana di Psichiatria[2] e del Coordinamento dei Direttori dei DSM italiani, che i DSM di questo paese siano in grado di offrire oggi ai cittadini una proposta di intervento unitaria, fondata sulle conoscenze scientifiche, comprese le scienze sociali ed economiche, da coniugare con le competenze che derivano dalla pratica clinica e dall’analisi delle organizzazioni per la Salute Mentale.

Giuseppe Ducci
Medico psichiatra
Direttore DSM ASL Roma 1

Leggi gli altri interventi: FassariCavicchiAngelozzi, Filippi

[1] I DSM italiani sono poco più di 100, con circa 25.000 operatori e poco meno di 1.000.000 in carico. Le carenze di personale sono molto gravi, soprattutto di psichiatri e NPI.

[2] La SIP è nata nel 1873 e conta attualmente più di 1000 soci attivi. La Società assume la prospettiva della salute mentale come elemento centrale e definisce linee guida e percorsi di cura. Inoltre propone strumenti informatici condivisi per superare la logica delle procedure e sviluppa modelli organizzativi inclusivi ed integrati.



05 ottobre 2022
© Riproduzione riservata


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