Degli oltre 11mila casi di violenza sul lavoro denunciati all’INAIL come ‘infortuni sul lavoro’, circa 5.000 sono infermieri. E finora questo è stato il dato allarmante di una situazione ormai ai limiti.
Ma un’indagine svolta su input della Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche (FNOPI) da otto università italiane, dice altro, e “scopre” anche i casi non denunciati (perché l’infermiere ha ritenuto che la violenza fosse parte del disagio dell’assistito e dei suoi familiari o perché si è ormai rassegnato a ritenere comunque che questi episodi siano una caratteristica del suo lavoro): il 32,3% degli infermieri (quasi 130mila) dichiara di aver subito un episodio di violenza verbale e/o fisica nell’ultima settimana e/o negli ultimi 12 mesi. La maggior parte di loro lavora in area medica 28,4%), ma anche l’area di emergenza e terapia intensiva non è da meno (27,3%). Sul territorio la percentuale “scende” al 10,9 per cento.
L’indagine si chiama CEASE-IT: violenCE AgainSt nursEs In The workplace: a multicenter, descriptive analytic observational study. E’ stata svolta da otto Università da Nord a Sud Italia, tra dicembre 2020 e aprile 2021 su un campione selezionato e statisticamente rappresentativo di 5.472 infermieri di tutte le aree operative della professione e che ha avuto come promotrice Annamaria Bagnasco, Professore ordinario, Dipartimento di scienze della salute, Università di Genova.
Tutti gli infermieri attivi oggi in Italia sono 395.000 circa su oltre 456.000 iscritti agli ordini e il risultato si traduce quindi in quasi 130mila infermieri (127.585) tra quelli attivi che nell’ultimo anno si sono trovati ad affrontare aggressioni fisiche o verbali e di questi il 75,4% è donna.
Nel 70% dei casi si è trattato di minacce verbali e comportamentali senza contatto fisico, ma nel 30% di minacce verbali e comportamentali con contatto fisico o anche di episodi di violenza con contatto fisico da parte di persone o oggetti.
Più della metà (il 54,3%) ha segnalato l’episodio, ma chi non l’ha fatto si è comportato così perché, nel 67% dei casi ha ritenuto che le condizioni dell’assistito e/o del suo accompagnatore fossero causa dell’episodio di violenza, nel 20% convinto che tanto non avrebbe ricevuto nessuna risposta da parte dell’organizzazione in cui lavora, il 19% ritiene che il rischio sia una caratteristica attesa/accettata del lavoro e il 14% non lo ha fatto perché si sente in grado di gestire efficacemente questi episodi, senza doverli riferire.
Ma le conseguenze dell’aggressione ci sono sempre.
Secondo lo studio il 24.8% degli infermieri che ha segnalato di aver subito violenza negli ultimi 12 mesi, riporta un danno fisico o psicologico causato dall’evento stesso, di questi il 96.3% riferisce che il danno era a livello psicologico.
Tra gli infermieri che hanno subìto un danno fisico o psicologico, il 16.6% afferma che il danno era di tipo fisico e ha causato escoriazioni/abrasioni, il 15.3% riferisce invece che il danno subito ha causato ecchimosi.
Poi, il 10.8% dichiara che i danni fisici o psicologici hanno causato disabilità permanenti e modifiche delle responsabilità lavorative o inabilità al lavoro.
Ma la conseguenza professionale prevalente riguarda il “morale ridotto” (41%) e “stress, esaurimento emotivo, burnout” (33%).
Il 15% infine di chi ha subìto un danno dichiara che questo ha comportato un’assenza lavorativa.
Nella maggior parte dei casi (51.8%) l’aggressore è di sesso maschile. La violenza fisica e/o verbale è eseguita in prevalenza dai pazienti nella fascia di età compresa tra 46-55 anni (24.7%) e 36-45 anni (20.8%); non sono riportati episodi di violenza verbale e/o fisica da parte di pazienti di età inferiore ai 16 anni.
E comunque il 59.7% degli infermieri che hanno subito violenza negli ultimi 12 mesi, ritiene che i fattori socioeconomici svolgano un ruolo significativo nel fenomeno delle aggressioni.
L’aggressione è avvenuta nel 53,7% dei casi quando l’infermiere ha provato a comunicare con l’assistito, nel 30,7% nel tentativo di gestire le reazioni dei pazienti come conseguenza dei ritardi e nel 24,7% dei casi durante la somministrazione di farmaci per via orale.
La maggior parte delle aggressioni è avvenuta in ospedale (92,5%, ma le risposte all’indagine potevano essere anche più di una), seguito a distanza dai centri di assistenza per la salute mentale (14,3%), dai servizi ambulatoriali territoriali (10,6%), in caso di emergenza territoriale (118: 3,7%), nelle strutture di riabilitazione e residenziali territoriali (2,8%), durante l’assistenza domiciliare (1,2%) e nei servizi e attività di comunità( ad esempio carceri: 0,4%).
Il 74.4% degli infermieri che ha subito violenza, afferma che l’organizzazione dipartimento/unità operativa ha introdotto immediatamente dopo l’evento di violenza, interventi per evitare una nuova insorgenza.
Il 12.9% dichiara che per l’episodio di violenza più grave subìto è stato offerto l’accesso ad un servizio di supporto per la gestione delle conseguenze fisiche e psicologiche.
I sintomi e/o diagnosi dell’aggressore predittivi di violenza identificati dagli infermieri sono: problemi di salute mentale (62.3%); uso di sostanze illecite (60.1%); aspettative non realistiche dell’assistito o dell’accompagnatore rispetto al sistema sanitario (57.9%), mentre i comportamenti dell’assistito o dell’accompagnatore che possono essere considerati segnali predittivi di imminente episodio di violenza sono il tono della voce (72.8%), lo stato di agitazione (70.9%), il comportamento minaccioso (66.7%), la postura (42.3%), il fissare con lo sguardo (32.7%), il camminare avanti e indietro (30.2%).
Dal punto di vista del personale invece, le caratteristiche che maggiormente possono contribuire a determinare gli episodi di violenza da parte dell’assistito e/o accompagnatore sono nel 54.7% dei casi una “comunicazione inadeguata con i pazienti (es. durante i tempi di attesa)”; nel 53.8% un “inadeguato numero di pazienti assistiti per singolo infermiere (Staffing)”; nel 34% dei casi “assenza di competenze per la gestione degli episodi di violenza da parte dei pazienti”.
E le azioni più efficaci per evitare conseguenze sono, secondo gli infermieri, per il 59.8% “riunioni formali con altri componenti del team assistenziale”; per il 53.1% “servizi di supporto per i dipendenti” e per il 40.9% “riunione informale con altri componenti del team assistenziale”.
E ancora una volta dall’indagine è emerso come la formazione specifica sia considerata una misura di prevenzione o riduzione del rischio di episodi di violenza sul luogo di lavoro.
Il 55.3% di chi ha dichiarato la presenza degli eventi formativi sul proprio luogo di lavoro per ridurre le aggressioni afferma di averlo completato.
Il 70% sostiene che partecipare agli eventi formativi è efficace per ridurre le aggressioni sul luogo di lavoro. Il 31.7% dice di aver completato un programma/corso di formazione per ridurre le aggressioni non avvenuto sul proprio luogo di lavoro.
Ma il 67.4%, invece, riferisce di non aver mai completato un programma/corso di formazione per ridurre le aggressioni.
Infine, La maggior parte degli infermieri (54%) riferisce che le procedure aziendali e/o dell’organizzazione sulla prevenzione e gestione dell’episodio di violenza, sono efficaci solo in parte, mentre il 30%, invece, che non sono efficaci.
"Lo studio ha dimostrato che gli infermieri conoscono i tratti e le caratteristiche di un potenziale comportamento di aggressione fisica o verbale; tuttavia per varie ragioni non riescono a intercettare e prevenire questi episodi”, spiega Annamaria Bagnasco, docente all’Università di Genova e coordinatrice della ricerca..
“Una delle concause dimostrate dallo studio – aggiunge - è la comunicazione inadeguata che avviene tra il personale e l’assistito e/o l’accompagnatore; tuttavia i processi comunicativi sono ampiamente influenzati dall’ambiente di lavoro, dallo staffing e dal benessere dei professionisti.
In questo momento lo studio sta fornendo ulteriori dati, su cui stiamo lavorando, per mettere in correlazione lo staffing, il benessere degli operatori e il benessere dei professionisti con gli episodi di aggressione, al fine di poter ipotizzare i fattori predittivi di questi eventi".
“Con lo studio CEASE-IT – afferma Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale degli ordini degli infermieri – si descrivono le caratteristiche degli episodi di violenza e si identificano i fattori predittivi e le cause. I correttivi di cui c’è bisogno derivano da qui. E su queste basi sarà sicuramente più immediato il lavoro dell’Osservatorio di tutte le professioni che il ministero della Salute coordina, anche per organizzare la formazione che sicuramente in questo senso deve partire dalle scuole dell’obbligo, per tutti, e non certo solo dai luoghi di lavoro. Come dimostra lo studio ci sono innumerevoli situazioni che aumentano la percezione di pericolo, alla cui base c’è sicuramente la carenza di personale che proprio dallo studio emerge in modo chiaro: gli standard dicono che la qualità dell’assistenza infermieristica è al massimo livello se un infermiere assiste in media sei pazienti, ma la media indicata da CEASE-IT è di 12 e questo non consente di manifestare al massimo livello quello che abbiamo anche codificato nel nostro Codice deontologico e cioè che ‘il tempo di relazione è tempo di cura’. E direi in questo caso, come dimostra lo studio, anche di prevenzione e gestione della violenza sugli operatori”.