È in corso in XII Commissione della Camera dei Deputati l’esame del disegno di legge delega al Governo per il riordino della disciplina degli Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS) – AC 3475. L’Anaao ha trasmesso alla Commissione della Camera un Documento (in allegato) evidenziando le criticità e proponendo delle modifiche.
Molte erano le aspettative che si erano create su una materia, che aveva avuto grandi promesse dal Piano Nazionale della Ricerca 2020-2022 in termini del riconoscimento della necessità di dare un forte impulso alla ricerca sanitaria, soprattutto alla luce dell’esperienza maturata durante la pandemia che ne ha evidenziato come assolutamente imprescindibile il potenziamento in termini di risorse.
A questo si aggiunge che la riforma nasce dal mandato della componente 2 della missione 6 del PNRR (M6C2.1 – Aggiornamento tecnologico e digitale – Riforma 1: Riorganizzare la rete degli IRCCS), con “l’obiettivo di rafforzare il rapporto fra ricerca, innovazione e cure sanitarie. Ciò al fine di sviluppare le potenzialità degli IRCCS e di incrementare la qualità della ricerca sanitaria in un’ottica traslazionale”. Peraltro come previsto nella NADEF 2021, costituisce un disegno di legge collegato alla manovra di bilancio 2022-2024
Pur ritenendo apprezzabile lo sforzo dell’Esecutivo in chiave di riforma, è tuttavia evidente che si è molto lontani dal livello di investimento in ricerca sanitaria degli altri paesi europei.
L’articolo 1, comma 5 del disegno di legge delega chiarisce che “dall’attuazione della riforma non devono derivare nuovi e maggiori oneri a carico della finanza pubblica”.
Diventa quindi difficile immaginare come si possa intervenire con un vero e proprio piano di sviluppo senza aumentare le risorse disponibili, ma anzi dicendo sostanzialmente alle regioni (articolo 1, comma1, lettera e)), che hanno ampia titolarità in materia di riconoscimenti, che, qualora si vogliano riconoscere altri IRCCS, loro stesse devono metterci del denaro, vincolando stabilmente quote di finanziamento alla ricerca. Quote che si immagina vengano stornate dal Fondo Sanitario, ricordando, peraltro, come attesta il DEF 2022 che nel triennio 2023-2025, la spesa sanitaria è prevista decrescere a un tasso medio annuo dello 0,6 e conseguentemente, il rapporto fra la spesa sanitaria e PIL decresce e si attesta, alla fine dell’arco temporale considerato, ad un livello pari al 6,2 per cento.
È pleonastico dire che tutto questo renderà impossibile riconoscere nuovi istituti, ma il combinato disposto con quanto indicato dall’articolo 1, comma1 lettera b), che riguarda le procedure di riconoscimento, conferma e revoca, attraverso la definizione di nuovi criteri non ben specificati, fa sì che, neppure tanto velatamente, si adombri la possibilità di diminuirne il numero.
È chiaro che proporre di introdurre criteri e soglie di valutazione elevati con meccanismi trasparenti e oggettivi è sicuramente un ottimo obiettivo, ma senza risorse adeguate rischia di diventare solo penalizzante per chi deve accettare la sfida. Sembra evidente il tentativo di limitare futuri riconoscimenti e provare a toglierne alcuni assegnati in passato. Peraltro, negli ultimi 20 anni il numero di IRCCS è passato da circa 35 a 52, con riduzione sostanziale del finanziamento complessivo ordinario di ricerca corrente. Se questi nuovi criteri di revoca e conferma saranno davvero oggettivi, trasparenti e soprattutto non penalizzanti per gli IRCCS pubblici, potrebbero migliorare complessivamente le eccellenze IRCCS, ma sui tali criteri non è dato sapere nulla se non generiche dichiarazioni. Il nodo della scarsità di risorse quindi resta in tutta la sua portata e la soluzione conseguente va nella direzione opposta allo sviluppo e al sostegno della ricerca soprattutto pubblica.
La separazione inoltre dei criteri di revoca e conferma fra mono e polispecialistici potrebbe inoltre contenere nella sua attuazione meccanismi di agevolazione dei grandi centri privati e/o dei policlinici universitari. Andrebbe previsto, che possano essere riconosciute non più di due discipline e che ciò sia possibile per tutti gli IRCCS e non solo per i policlinici universitari.
Sul fronte del personale (articolo 1, c. 1 lettera n)) è sicuramente positivo che si riduca il periodo di precariato attualmente in essere con la cosiddetta “piramide del ricercatore” che ad oggi è di dieci anni (5+5), ma il non prevederne uno sbocco di stabilizzazione nell’area della dirigenza e un accesso obbligato in sovrannumero alle scuole di specialità, si traduce in una ennesima mortificazione proprio di quei giovani che rappresentano il futuro della ricerca italiana. Con l’assenza di prospettive di stabilizzazione come fatto per il personale precario dell’assistenza, (D.lgs 25 maggio 2017, n. 75 e ssmi.,) si è creato un “vulnus” profondo nella ricerca pubblica sanitaria, separandola di fatto dall’assistenza per la quale, al contrario, è stato previsto un vero e proprio percorso di reale stabilizzazione. Va anche aggiunto che le condizioni di assunzione di questo personale sono state così penalizzanti che solo un terzo scarso degli aventi diritto ha aderito e che quindi, con una spesa veramente irrisoria, sarebbe possibile porre fine ad una vergognosa pagina della ricerca sanitaria pubblica.
Esiste una grande differenza fra IRCCS pubblici e privati e in tema di risorse si sono sempre messi e si continuano a mettere sullo stesso piano realtà molto diverse, tant’è che molte delle norme proposte riguardano l’organizzazione dei IRCCS pubblici, che però sono solo 21 su 30.
Fra le modifiche proposte sicuramente i criteri di selezione dei Direttori Scientifici, il loro rapporto con la Direzione Generale tenta di porre fine ad annosi problemi di convivenza nelle strutture pubbliche fra realtà diverse, ricerca e assistenza, che spesso hanno anche obiettivi diversi. Ma non è certo agendo solo sui vertici delle strutture pubbliche, giacché il privato fa quello che vuole, che si risolve la dicotomia tra ricerca e assistenza. Manca completamente infatti una visione complessiva di politica del personale IRCCS pubblico che, va ricordato, ha l’obbligo non solo dell’assistenza, ma anche della ricerca. Ricerca che non compare né nei criteri di selezione, né nel tempo lavorativo, ma magicamente solo negli obiettivi di risultato. Non è solo chiarendo bene le incompatibilità dei direttori scientifici per non incorrere in conflitti di interesse, che si qualifica il sistema, ma selezionando e motivando ad hoc il personale che ci lavora.
Infine tra criterio di territorialità, bacino minimo di riferimento e dimensione sovraregionale alla lettera c) e d) dell’articolo 1, comma 1 del disegno di legge, si è capito ben poco, ma si rischia di veder riconosciuto un IRCCS dove non c’è e di negarlo dove ci sono le potenzialità o, peggio, dove c’è e funziona. Il messaggio che arriva, dalle due lettere citate sarebbe di evitare concentrazioni di IRCCS nella stessa area geografica, con possibili sbilanciamenti ed “attrattori” nella mobilità extraregionale. Fermo restando il diritto dei pazienti ad usufruire dei servizi là dove ci sono, se non disponibili nella propria regione.
Tutto ciò, sembra indirizzato principalmente alle regioni che sugli IRCCS hanno patria potestà e con cui in occasione dell’emanazione dei decreti delegati si potrebbe aprire l’ennesimo scontro, e non sarebbe certo la prima volta.
La convivenza fra ricerca e assistenza, che fa degli IRCCS un modello unico anche a livello internazionale, è un patrimonio sicuramente da sostenere e la spinta verso l’alto della qualità e la valorizzazione delle reti contenuta nella riforma va certamente in questa direzione.
Sarebbe ora che in questo paese si investisse davvero in ricerca sanitaria pubblica finanziata da soldi pubblici per valorizzare questo Sistema Sanitario Nazionale che ha dimostrato di avere, anche in tempo di pandemia, insostituibili capacità anche in territori apparentemente e numericamente di nicchia, ma di grande rilevanza per la salute pubblica come gli IRCCS. In questo senso auspichiamo un intervento del legislatore.
Maria Anita Parmeggiani