Intervengo anch'io in merito agli articoli di Asiquas recentemente pubblicati sulla vostra testata sul tema degli ospedali “flessibili” o “agili”. Come è noto la Sanità è un sistema complesso, una rete di servizi dedicati alla persona, che risponde ai bisogni di salute dei cittadini. È la maggiore filiera produttiva e di servizi del Paese, che prima della pandemia valeva con l’indotto intorno al 14-15% del PIL e che oggi vale il 16-18%.
“Resilienza”, “rinascita” e “sostenibilità” in sanità.
Si parla molto di “resilienza” e di “rinascita” in sanità anche a fronte del PNRR e della sua implementazione.
“Resilienza” e “rinascita” richiamano il tema della “sostenibilità”, che è la caratteristica di un processo o di uno stato che si autosostiene senza pesare sulle generazioni future e che può essere mantenuto ad un certo livello di performance indefinitamente. In anni recenti questo concetto è stato applicato anche agli organismi viventi ed ai loro ecosistemi.
Relativamente alla capacità di mantenere “stabilità”, quindi, ad esempio, continuare ad erogare ricoveri programmati come se niente d’imprevisto fosse accaduto, il sistema non è stato per niente resiliente. Da un altro punto di vista ha “resistito” limitando episodi e situazioni altamente drammatiche. Ma come ogni resistenza ha avuto i suoi affanni e le sue vittime.
Con riferimento alla società la “sostenibilità” indica un "equilibrio fra il soddisfacimento delle esigenze presenti senza compromettere la possibilità delle future generazioni di sopperire alle proprie" (Rapporto Brundtland del 1987). Questa definizione può essere applicata alla Sanità in quanto la salute è la risultante della qualità delle policy di una comunità.
Parimenti lo “sviluppo sostenibile” è una forma di sviluppo della società (che comprende lo sviluppo economico delle città, delle comunità, ovvero, sociale e ambientale ecc.) che non compromette la possibilità delle future generazioni di perdurare nello stesso sviluppo, preservando la qualità e la quantità del patrimonio e delle riserve naturali che sono esauribili. L'obiettivo è mantenere, dunque, uno sviluppo economico compatibile con l‘equità sociale e gli ecosistemi (eco-compatibilità), operante in regime di equilibrio ambientale. La sanità e la salute sono ovviamente precondizioni per avere uno “sviluppo sostenibile”.
I limiti della programmazione in sanità
La domanda in un settore di welfare dovrebbe essere determinante per le scelte di policy.
In Sanità, invece, assistiamo ad una capacità dell’offerta in particolare del settore privato, accreditato e privato-privato, di condizionare la domanda, di determinarla e di orientarla verso servizi e prestazioni più remunerative per gli erogatori, non necessariamente quelle più necessarie e utili ai pazienti, con rilevanti problemi di appropriatezza ed efficacia delle cure, vedi il rapporto tra LEA pubblici e nomenclatori prestazionali della “sanità integrativa”.
I “driver” di cambiamento in sanità
La Sanità, inoltre, è la risultante in divenire di diversi e numerosi “driver di cambiamento” che ne determinano le dinamiche di sviluppo sia in relazione alla “domanda” che all’“offerta”.
I principali “driver di cambiamento” sono in sintesi:
• Le dinamiche delle “policy degli stakeholder istituzionali”, che ne possono condizionare pesantemente modi di operare e i modelli di gestione e di governance;
• Le “dinamiche demografiche”, che ridisegnano in continuo il mercato “captive”, se pubblico, o “privato”. Più la popolazione invecchia, più aumentano le fragilità, le cronicità, le policronicità e la domanda di servizi sanitari, sociosanitari e sociali, da coordinare e integrare in una logica di resilienza e sostenibilità del sistema;
• Lo “sviluppo della ricerca scientifica”, della farmacopea, della conoscenza delle patologie e del loro divenire, che impatta su “skill professionali”, su modelli gestionali e su pratiche terapeutiche e chirurgiche, nonché riabilitative, cambia ruoli e mansioni, in una parola “cambia il modo di lavorare in sanità”.
• Lo “sviluppo delle tecnologie”, che ha un impatto fortemente innovativo e interagisce sui modelli organizzativi e gestionali. Esso tendenzialmente è “labour saving”, ma “capital intensive”, vedi laparoscopia, radiologia interventistica, emodinamica, che con la loro introduzione hanno determinato una forte riduzione dello spazio per le chirurgie tradizionali del 60-70%, essendo tecniche meno invasive, utilizzabili anche su pazienti anziani e cronici e/o poli cronici. Tali tecniche richiedono meno giornate di degenza per intervento, in terapia intensiva e semi intensiva, in reparto e in riabilitazione.
Circa l’appropriatezza nei ricoveri e i costi di degenza
Per altro, una giornata di degenza in ospedale per solo ricovero, senza farmaci, terapie e riabilitazione, costa alla collettività, a seconda del livello di complessità assistenziale dell’ospedale dalle 600/800 € alle 1.200 € pro die. Questa constatazione ripropone il tema della appropriatezza dei ricoveri, che nonostante i cambiamenti in atto rappresenta un’area di criticità su cui continuare a lavorare.
In Italia, rispetto agli altri Paesi della UE, la bassa appropriatezza dei ricoveri sommata al calo dei Posti Letto porta ad un vero e proprio stravolgimento degli ospedali rispetto ai loro ordinamenti istitutivi.
La super specializzazione delle branche specialistiche determina una frammentazione delle competenze, solo in parte ricomposta negli ospedali con il modello organizzativo dipartimentale per “aree cliniche”, che apre la strada a successive sperimentazioni per reparti a “intensità di cura”.
La pandemia da SARS-COV-2 ha messo in evidenza le criticità esistenti e ha costretto le aziende sanitarie pubbliche ad uno sforzo enorme di cambiamento per far fronte all’emergenza pandemica. Con i DM 70 e DM 71 in approvazione si sta cercando di accompagnare e aiutare questo cambiamento.
Il PNRR e i suoi obiettivi
Il PNRR prevede interventi in tecnologie e digitalizzazione sia negli ospedali che nella medicina territoriale. Questi fondi, che per i 2/3 devono essere restituiti, finanziano opere murarie e acquisizioni di “device”, piattaforme informatiche e singoli applicativi, inducendo cambiamenti organizzativi e gestionali che dovrebbero liberare risorse umane da riconvertire/ricollocare nei nuovi modelli di servizi sia ospedalieri che territoriali.
Il management sanitario dovrebbe gestire la riconversione dei servizi portandoli a regime e usando prevalentemente la leva della formazione di 300.000 operatori e di 5.000 manager, previsti nel PNRR, senza quasi avere nuove risorse professionali da mettere in campo. Inoltre, una delle criticità maggiori del PNRR è il “turn over”: a breve andranno in quiescenza decine di migliaia di medici e infermieri.
Innovazione organizzativa e nuovi ospedali
Anche per gli ospedali si impone il tema dell’implementazione dei nuovi modelli organizzativi, del rifacimento del loro “lay out” e di come sostituire con nuovi modelli organizzativi quelli obsoleti e ormai inappropriati. Nelle riconversioni produttive e di servizi, in letteratura e nella pratica, nella fase di transizione dai vecchi modelli operativi ai nuovi, è necessario il mantenimento temporaneo del vecchio modello in parallelo con la prototipazione e il collaudo del nuovo per poi, consolidato il cambiamento, dismettere definitivamente quello vecchio.
Quindi si assiste ad una doppia gestione in parallelo che comporta costi sovrapposti, anche se in prospettiva la generalizzazione del nuovo modello operativo comporterà nel tempo un significativo risparmio gestionale.
Però l’esigenza della sovrapposizione di “vecchio” e “nuovo” nella fase di sperimentazione e di cambiamento c’è ed è ineludibile. Come allora supplire a questo bisogno di risorse aggiuntive e a termine?
Le nuove tecnologie in sanità sono “labour saving”?
Le nuove tecnologie di cura e la digitalizzazione sono “labour saving” tendenzialmente, ma non sempre sono di facile introduzione se vissute come obblighi formali e non come nuovi modi di lavorare più efficaci, efficienti e appropriati. Di solito se inserite in organizzazioni performanti consentono agli operatori di lavorare meglio, liberando “tempo di lavoro” da dedicare di più alle attività cliniche.
In tutti i manuali di cambiamento organizzativo le leve del cambiamento indicate come strategiche sono, non a caso, il piano di formazione e quello di comunicazione. Ovvero è necessario intervenire sugli “skill professionali” per adeguarli alle competenze tecniche e relazionali necessarie per supportare il cambiamento e comunicare il cambiamento agli stakeholder interni ed esterni, alle comunità e ai pazienti. Il tutto richiede un governo del cambiamento organizzativo da gestire con oculatezza. Infine bisogna dare attenzione alle resistenze interne e alle sovrapposizioni di ruoli e servizi!
“Casa come primo luogo di cura”
La centralità del tema della “casa come primo luogo di cura” ripropone il tema della presa in carico dei pazienti e della loro continuità assistenziale in un approccio integrata tra servizi ospedalieri e territoriali.
Qui si pone il ruolo del paziente come persona che deve conservare le sue capacità residue il più a lungo possibile nel suo ambiente di vita e di lavoro. Quindi si passa dall’approccio per sintomi legati ad episodi di acuzie a quello di accompagnamento nel percorso di vita, di salute possibile, di “empowerment” del paziente, della famiglia, delle comunità. Altra area da sviluppare è quella della digitalizzazione che consente di gestire i pazienti a domicilio in un approccio di ADI a media e alta complessità assistenziale. Questa eventualità riduce senza dubbio la necessità di posti letto ordinari. Aumenta la richiesta di PL di “day hospital” e di “day surgery”.
L’importanza della scelta dei “setting” assistenziali nella “presa in carico” dei pazienti
Come abbiamo già visto i costi di degenza ospedalieri sono ormai tali che tutte le altre forme di ricoveri in Ospedali di Comunità/Unità di degenza a gestione Infermieristica, residenze di vario tipo e genere sono più sostenibili per la collettività che il ricovero ospedaliero. La resilienza del sistema si basa sulla sua sostenibilità.
Efficacia delle cure e appropriatezza basate su pratiche validate da EBM sono assolutamente condizionanti e strategiche. La corretta scelta dei “setting” assistenziali è determinante per garantire l’appropriatezza delle cure e una corretta e sostenibile allocazione delle risorse.
Gli ospedali si stanno evolvendo per tutti questi cambiamenti in atto verso una organizzazione tendenzialmente per “intensità di cura”, dichiarata o praticata perché l’appropriatezza dei ricoveri e l’ottimizzazione dell’uso dei PL porta inevitabilmente verso una organizzazione più “lean” e più “integrata”.
Questo consente di affrontare il tema dalla “presa in carico” dei pazienti in un approccio di “continuità assistenziale”, “gestionale” e “relazionale” intese come:
• Continuità relazionale (Relational continuity): del paziente con diversi professionisti sanitari e socio-sanitari che forniscono assistenza in modo organico, coerente e attento allo sviluppo del percorso di trattamento in senso prospettico;
• Continuità gestionale (Management continuity): attraverso un’azione complementare e temporalmente coordinata e integrata dei servizi/professionisti coinvolti nel sistema di offerta assistenziale. È particolarmente importante in patologie cliniche croniche o complesse, che richiedono l’integrazione di più attori professionali/istituzionali nella gestione del percorso del paziente (PDTA, PAC. PAI, etc.);
• Continuità informativa (Informational continuity): permette la comunicazione tra i soggetti istituzionali/professionali che operano nei differenti “setting” assistenziali nel percorso di cura del paziente. Riguarda informazioni non solo sulla condizione clinica, ma anche sulle preferenze, le caratteristiche personali e di contesto, utili ad assicurare la rispondenza al bisogno di salute.
Torna il tema dell’”integrazione” ospedale – territorio
Quanto sopra inserito in un approccio di “integrazione” tra ospedale e territorio, che ormai da decenni lavora per livelli di “complessità assistenziale” vedi il Modello “Expanded Cronich Care Model” Canadese.
Fondamentale è la capacità di erogare assistenza attraverso il potenziamento del coordinamento e della continuità delle cure all’interno e tra le diverse istituzioni e i diversi operatori variamente coinvolti nell’assistenza dei pazienti nelle filiere assistenziali, che, tranne per l’ospedalità, ancora presidiata prevalentemente dalla sanità pubblica, vede la presenza di una pluralità di soggetti privati, sociali, profit e no profit, terzo settore, associazionismo e volontariato. Tutti portatori di interessi specifici che vanno riconosciuti e ricomposti in politiche di sanità e salute territoriali integrate.
I Distretti assumono perciò un nuovo ruolo, non più gestori del “day after day” dei servizi territoriali, ma come vere e proprie “agenzie di salute dei territori”, evoluzione dei Distretti “pesanti” del Veneto e dell’Emilia Romagna e delle “Società della Salute” della Toscana.
“La proprietà più generale e fondamentale di un sistema è l'interdipendenza delle parti o variabili. L'interdipendenza consiste nell'esistenza di determinate relazioni tra le parti o variabili”, [Parsons e Shils, 1951].
La stratificazione dei bisogni come “incipit” nella programmazione sanitaria
Nel PNRR viene data centralità alla stratificazione dei bisogni delle popolazioni per target omogeni di profili di patologie. Da questo discende il ruolo centrale e di agente di policy dei Distretti in un approccio di “integrazione” tra ospedale e territorio, anche nel senso di crescita del territorio per “livelli di complessità assistenziale”. Gli stessi “nuovi LEA” hanno subito un viraggio dalla “medio/bassa” alla “medio/alta” ADI per gestire il paziente complesso a domicilio. Questo è possibile e già realizzato in diverse aziende sanitarie del nostro Paese.
In questo contesto si colloca l’ospedale sempre più specializzato e sempre più proiettato e integrato con il territorio, vedi la presenza e/o il coinvolgimento di personale ospedaliero nella gestione delle UDI/Ospedali di Comunità, vedi la diagnostica nelle Case di Comunità, vedi il secondo e terzo livello dell’ADI a medio/alta complessità assistenziale tramite la realizzazione delle “reti cliniche”.
L’ospedale come “hub” sanitario territoriale e come grande COT verso l’assistenza domiciliare dei pazienti cronici e policronici. È possibile prevederlo in un futuro prossimo?
In realtà abbiamo già un esempio significativo nel “Mercy Virtual Care Center” di St. Louis, in Missouri (USA) che è operativo dal 2015, non ha né letti né pazienti al proprio interno, bensì una squadra di professionisti sanitari (330 fra medici e infermieri specializzati) che offrono servizi di assistenza virtuale a 600.000 pazienti in sette stati USA: Arkansas, Kansas, Missouri, North Carolina, Oklahoma, Pennsylvania e South Carolina. Eroga una assistenza virtuale altamente sviluppata, che integra le tecnologie di telemedicina con i dati delle cartelle cliniche elettroniche in tempo reale. Il tutto supportato da algoritmi avanzati, che rilevano immediatamente i pazienti che necessitano di intervento (sistemi di allerta).
Il Centro ha ottenuto risultati altamente soddisfacenti con una riduzione del 52% delle riammissioni evitabili, oltre il 30% di riduzione delle spese mediche, un aumento del 20% dell’utilizzo del servizio ambulatoriale e un aumento dell’11% delle visite ambulatoriali.
Altresì, il 98% dei partecipanti ha dichiarato di essere estremamente soddisfatto del programma che gli consente di restare a domicilio (“la casa come primo luogo di cura”).
Il tutto è reso possibile da telecamere bidirezionali altamente sensibili, strumenti online e monitoraggio in tempo reale dei parametri vitali attraverso cui i professionisti possono tenere sotto controllo i pazienti a distanza. Una specie di super COT + un “hub” di telemedicina, teleassistenza, telesoccorso + reti di ADI a media/alta complessità assistenziale, + un modello di integrazione di prossimità.
DRG e livelli di copertura dei costi: l’introduzione o meno dei “costi standard”
Il costo unitario degli interventi sanitari e la loro integrazione con il sociale pongono in un approccio di razionalizzazione, ottimizzazione e “lean management” il tema di ripensare gli strumenti di remunerazione.
I DRG di origine USA, poi adattati per l’area welfare dal NHS inglese e importati in Italia non tengono conto dei livelli di costo delle nostre strutture ospedaliere e territoriali.
Ormai innumerevoli studi dimostrano che le nostre strutture ospedaliere ad alta complessità assistenziale più lavorano e più perdono. Urgente è quindi arrivare alla introduzione dei “costi standard” italiani superando il veto in Conferenza Stato/Regioni/PPAA di alcune Regioni con SSR bassamente performanti.
Questo anche concordando un periodo di transizione come già fatto con i Piani di Rientro per le Regioni meno performanti.
La digitalizzazione 4.0 della sanità
La digitalizzazione 4.0 basata su Intelligenza Artificiale e Data Analytics consente di integrare tutti i dati purché prodotti in un’azienda sanitaria sia nei servizi di prevenzione, che ospedalieri, che territoriali, che di reti di cure primarie tramite piattaforme di secondo livello che “integrano” il variegato mondo di applicativi esistenti nelle aziende sanitarie, anche quelli obsoleti e meno performanti o quelli usati dai MMG e PLS, o dai specialisti territoriali o dalla guardia medica e dalla continuità assistenziale. Pertanto non ci sono più scusanti.
È solo un problema di volontà politica delle Regioni e dei manager delle aziende sanitarie (pubbliche) che se “integrano”, inducono l’”integrazione” anche per le strutture private accreditate dell’indotto.
La leva della digitalizzazione è fondamentale per implementare i nuovi modelli organizzativi sia ospedalieri che della medicina territoriale, di comunità e di prossimità. Solo integrando e condividendo i dati si libera “tempo lavoro” degli operatori, si restituiscono tempi alle attività cliniche, si liberano risorse da riqualificare e ricollocare nelle reti e nei servizi.
Se, invece, restiamo al palo discettando su integrazioni da sviluppare “ex novo” tramite servizi informatici in “house” delle singole Regioni e bassamente performanti, mentre già sono sul mercato piattaforme validate, oltre a determinare costi ripetitivi, assistiamo ad una perdita di tempo e a spreco di risorse.
Il PNRR ha tempi certi e procedure predefinite che vanno rispettate.
Cerchiamo di non perdere l’occasione per piccole politiche di cabotaggio a vista che hanno sempre prodotto sprechi, dissipazione di risorse pubbliche e aree grigie di gestione.
Giorgio Banchieri
Segretario Nazionale ASIQUAS