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“Referendum a parte serve una diversa vision del ruolo del Ssn”

di Federico Spandonaro

13 DIC - La rilettura della politica sanitaria nazionale di questo ultimo anno porta a formulare un giudizio sostanzialmente ambivalente: per un verso si potrebbe concludere che il dibattito si sia ulteriormente impoverito, concentrando tutta l’attenzione su aspetti che, per quanto essenziali per il funzionamento del sistema, non incidono sulle strategie generali; ci riferiamo ad esempio all’aggiornamento dei LEA, o al nuovo Piano di prevenzione vaccinale, la cui importanza è indiscutibile, ma che si riferiscono a technicalities di sistema, aggirando temi centrali quali quello (nel primo caso) del livello di servizio al quale il SSN vuole tendere, o del livello di sussidiarietà (nel secondo caso) a cui si ispira.
 
Si può però affrontare la questione da una diversa prospettiva, concludendo che sia stato invece definitivamente individuato come elemento maggiormente rilevante quello dei rapporti fra centro e periferia, ovvero Stato e Regioni, e che il dibattito sia solo rimasto sopito in attesa del redde rationem, rappresentato dal quesito referendario sulla riforma costituzionale.  Sebbene non sia evidentemente il tema unico o centrale, quello del rapporto fra Stato e Regioni è, infatti, parte essenziale del dibattito; e il fatto che la funzione delle Regioni coincida largamente con la gestione della Sanità, rende il settore ancora una volta cruciale per l’evoluzione politico-istituzionale.

Per semplificare il quadro, potremmo allora riassumere la “questione sanitaria” attuale, in tre domande: 1. è finita l’emergenza economico-finanziaria? 2. sono risolvibili le evidenti differenze quali-quantitative che caratterizzano i SSR? 3. è ulteriormente sostenibile il sistema attuale?
Sul primo punto, che ha caratterizzato tutta la politica sanitaria e le riforme del comparto degli anni ’90 fino alla riforma del Titolo V del 2001, la risposta sembra essere ormai largamente condivisa e affermativa, tanto da rimanere per lo più implicita nel dibattito. Sul secondo punto la bagarre politica intorno al referendum ci ritorna nei fatti una valutazione altrettanto condivisa, si potrebbe anche dire trasversale: si mette implicitamente sotto accusa il Federalismo, considerato dai più reo di avere generato “21 Sistemi Sanitari Regionali”, ovvero avere allargato le disparità fra le Regioni. Il terzo punto viene, invece, del tutto rimosso, evidentemente scontando una risposta implicitamente affermativa, probabilmente basata sull’idea che le disparità regionali siano l’unico vero rischio di implosione del sistema.
 
Se il quadro descritto, sebbene con qualche forzata semplificazione, è considerabile esplicativo del momento attuale del dibattito di politica sanitaria, appare allora evidente come si sia formato a livello politico un fronte, compatto e trasversale, che ritiene il sistema attuale sostanzialmente adeguato, seppure subordinatamente ad un necessario “restyling” dei rapporti fra Stato e Regioni.
 
La trasversalità della posizione genera un evidente “conformismo”, che in ultima istanza spiega l’apparente assenza di dibattito sul futuro della Sanità: sotto la “brace” cova, però, un conflitto (anch’esso del tutto trasversale), ma fra politica regionale e centrale: rimane per ora soffocato dalla più ampia partita politica rappresentata dal referendum, ma è certamente pronto a riaccendersi appena quest’ultimo sia stato espletato, quale che ne sarà il risultato. Le avvisaglie del conflitto latente fra Stato e Regioni già si sono manifestate: ad esempio, non appena si è giornalisticamente paventato che, nella Legge di Bilancio, le risorse programmate per la Sanità sarebbero state ridotte (anche quest’anno), le Regioni compatte hanno minacciato di impugnare l’accordo sui nuovi LEA.
 
La sfida è allora provare a rianalizzare le questioni sopra proposte, sia per fornire una valutazione oggettiva sulla correttezza delle posizioni attualmente predominanti, sia per provare a disegnare gli scenari futuri della Sanità e, ove possibile, indicare ai decision maker qualche soluzione alternativa a quelle (se ci sono) attualmente proposte
 
La disamina che precede pone all’attenzione almeno tre problemi prioritari per il futuro del SSN: il primo è come rendere compatibili gli equilibri macroeconomici con l’equità del sistema; il secondo è come rendere effettivo e stabile un nuovo equilibrio istituzionale fra Stato e Regioni; il terzo è come riorganizzare il sistema su due livelli, integrando l’assistenza pubblica di base con il crescente ruolo assunto dalla spesa privata, in particolare quella intermediata dalle polizze collettive. Prima di suggerire alcuni elementi di attenzione, è però bene premettere quello che può certamente definirsi un dato positivo per il nostro SSN. Il sistema sanitario italiano ha, infatti, sperimentato in anticipo rispetto agli altri Paesi europei, tanto l’impatto dell’invecchiamento, quanto quella della riduzione delle risorse disponibili: l’enorme gap fra spesa italiana ed europea (EU14) e il, certamente inferiore, gap nel livello dei servizi erogati, ci rassicura sula resilienza del sistema, che è stato capace di governare la transizione, ponendosi oggi fra quelli certamente considerabili maggiormente “sostenibili”.
 
Questo non significa, però, che il gap rispetto agli altri Paesi possa continuare ad allargarsi senza pregiudicare i livelli di servizio; e, a sua volta, questa osservazione implica la necessità di definire nuove strategie di sviluppo del SSN. L’impossibilità di mantenere (o forse più correttamente di raggiungere) la globalità della risposta assistenziale pubblica, implica la capacità di decidere razionalmente su quali siano le priorità cui dedicare le risorse esistenti.
 
L’indicazione per l’individuazione delle priorità ci viene peraltro dalla nostra Costituzione e dalle leggi costitutive del SSN, oltre che dalla ovvia constatazione per cui è nel perseguimento dell’equità che si estrinseca il ruolo di un servizio pubblico universalistico. Equità che si misura con la capacità di garantire universalmente la possibilità di accesso alle cure: e non sembra poterci essere ragionevole dubbio che, oggi, il tema dell’accesso non si pone più tanto in termini di disponibilità di offerta, sebbene forse sovrabbondante in alcuni segmenti e insufficiente in altri, quanto in termini di barriere all’accesso rappresentate dai costi proibitivi di alcune cure.
 
Per garantire universalmente equità nell’accesso è, allora, necessario intervenire prioritariamente per rendere compatibili le condizioni economiche delle famiglie con i costi che devono sostenere per accedere alle cure (socialmente meritorie/appropriate). Va da sé che questo non implica erogare cure gratuite per tutti, quanto piuttosto la capacità di richiedere livelli di compartecipazione “proporzionali” alle condizioni economiche. Semplificando, piuttosto che rischiare di razionare le nuove terapie, sembra più equo chiedere un maggiore contributo alla popolazione per quelle a minore impatto economico.  Contributo che ovviamente dovrebbe essere commisurato alle capacità economiche, onde evitare fenomeni di impoverimento (che per inciso hanno raggiunto il ragguardevole livello del 1,2%, con punte del 2,7% nel Mezzogiorno).
 
Onestà intellettuale richiede di sottolineare che per quanto equa e sulla carta effettivamente implementabile (con un sistema di compartecipazioni modulato in rapporto ai “mezzi”), una siffatta forma di prioritarizzazione non è proponibile in un Paese dove (dato 2013) oltre il 60% dei cittadini paga una imposta IRPEF inferiore o al massimo uguale al costo medio pro-capite della sola Sanità pubblica.
 
Il paradosso dell’universalismo italiano è, oggi, che il servizio viene di fatto garantito da una minoranza di contribuenti fortunati o onesti, che “mantengono” un numero abnorme di concittadini (poveri o disonesti); e, oltre tutto, questi contribuenti probabilmente ricevono anche in proporzione meno servizi, essendo gli unici soggetti alle compartecipazioni. Sembra questione irrisolvibile, ma va da sé che, in prospettiva, più le risorse caleranno, più sarà necessario prioritarizzare e, di conseguenza, bisogna avere la consapevolezza che la sopravvivenza del SSN universalistico dipenderà strettamente dalla capacità di rendere finalmente equo il fisco.
 
Prioritarizzare, per quanto premesso, implica anche definire quali siano le prestazioni meritorie e quindi degne della tutela pubblica. Questo comporta due scelte strategiche, di cui la prima si lega anche alla questione dei rapporti istituzionali, oggi al centro del dibattito politico. Infatti decidere cosa sia “appropriato” richiede processi trasparenti e anche autorevoli di valutazione.
 
Non c’è dubbio che l’argomento sia di quelli con valenza del tutto generale e quindi da affidarsi al livello centrale: pensare che la appropriatezza sia declinata regionalmente sarebbe la fine evidente dell’universalismo. Da questo punto di vista, il tema della valutazione dell’appropriatezza e della meritorietà sociale, è legato a quello della credibilità di un riaccentramento delle decisioni “generali e comuni”, che è oggi in discussione: a tal fine ci sembra sia però necessario rifondare i sistemi di partecipazione degli stakeholder del sistema (cittadini e professionisti) alle decisioni; si invoca spesso l’Health Technology Assessment (HTA) come metodo razionale e trasparente per prendere decisioni, ma altrettanto frequentemente si dimentica di aggiungere che il processo dell’HTA non configura valutazioni meramente tecnocratiche, richiedendo invece la partecipazione corale degli stakeholder alla definizione delle scelte. Pensare ad un accentramento meramente tecnocratico sarebbe “miope”, sia da un punto di vista politico che da quello tecnico: si genererebbero, ad esempio, immediati conflitti fra le Istituzioni e i cittadini, essendo le prime chiamate dalla scarsità di risorse a restringere il campo dell’appropriatezza, ed essendo i secondi portatori di interessi esattamente opposti.
 
Con questa prospettiva mancherebbero quelle condizioni di “autorevolezza” capaci di rendere efficace la rideterminazione delle competenze regionali e statali. Solo da un confronto e una corresponsabilizzazione degli stakeholder tanto sui temi dell’accesso che su quelli delle compatibilità economiche, può generarsi un processo credibile di formulazione dei criteri di prioritarizzazione degli interventi, necessario per rendere compatibili risorse e aspettative, disinnescando il continuativo conflitto fra livelli centrali e locali di governo. La Sanità italiana deve fare un significativo passo avanti in questo senso: non è, infatti, accettabile che non si riesca a mettere intorno al tavolo gli stakeholder del sistema, vuoi per la frammentazione delle società scientifiche e delle associazioni di advocacy, vuoi per un imperante regime di reciproca diffidenza fra categorie di stakeholder.
 
Evidentemente va coraggiosamente affrontato il tema della rappresentatività dei corpi intermedi, evitando che la frammentazione produca una ingovernabilità del sistema sanitario (frammentazione che, non a caso, è dato comune del Paese, confermando che la Sanità è un “campione rappresentativo” della Società italiana).
 
Un secondo aspetto propositivo rispetto alle necessità di prioritarizzazione è legato alla declinazione stessa del concetto di appropriatezza. La difficoltà crescente di definirne i limiti sembra, infatti, legata ad un approccio reso obsoleto dalla crescente offerta di opportunità diagnostiche e terapeutiche. Definire in modo dicotomico cosa sia, o non sia, appropriato rende di fatto molto difficile procedere. Analogamente rende quasi impossibile disegnare il discrimine fra cosa sia, o non sia, “innovativo”.
 
Sarebbe allora opportuno valutare la possibilità di associare (cosa peraltro non nuova, basti vedere l’esperienza francese) alle prestazioni, non un “bollino” di appropriatezza di tipo dicotomico, ma un valore di meritorietà sociale su una scala (ad esempio a 5 livelli); in tal modo, le singole prestazioni potrebbero entrare nei LEA in modo differenziato (evitando o almeno mitigando il rischio delle logiche esclusive, “dentro o fuori”); diversificazione ad esempio associata a livelli di compartecipazione differenziati, che arricchirebbero fortemente le leve di governo del sistema.
Anche qui nulla di assolutamente nuovo, trattandosi piuttosto di recuperare, con i dovuti ammodernamenti, strumenti che sono stati miopicamente abbandonati, spesso per mere ragioni elettorali: si pensi, ad esempio, al caso dei farmaci, che sino alla soglia del XXI secolo erano effettivamente classificati in “salva vita” (la classe A), e per questa loro meritorietà erogati gratuitamente, e in “altri farmaci” (classe B) erogati, invece, a fronte di una compartecipazione: avere abbandonato queste graduabilità degli interventi, e la relativa flessibilità, ha impoverito il sistema di leve di governo capaci di rendere compatibili risorse e aspettative. Il terzo punto richiede che siano ridefinite non solo le competenze istituzionali del sistema pubblico, ma anche i ruoli reciproci del settore pubblico e di quello privato: continuare ad ignorare che oltre il 30% del costo delle cure (indipendentemente dai giudizi di appropriatezza) è oggi sostenuto direttamente dalle famiglie, implica lasciare il sistema ad una evoluzione disordinata, portatrice oltretutto di ulteriori allargamenti delle disparità geografiche/regionali, come sopra evidenziato.
 
Tanto più il sistema perde la sua connotazione di globalità, e tanto più la Sanità complementare diventa fatto socialmente meritorio e quindi degno di attenzione e regolazione. Già nelle precedenti edizioni abbiamo più volte richiamato l’attenzione sulla mancanza di una chiara visione politica sul ruolo della Sanità complementare e sulla conseguente carenza di regolamentazione del settore. Rimandando a quelle osservazioni, ci sembra si debba aggiungere che le cifre raggiunte dal fenomeno richiedano sia rivista tanto la vision che la mission del SSN. Di fronte alla crescita della Sanità complementare (di fatto privata, ma non per definizione, bensì perché manca una strategia di intervento pubblico complementare), il SSN si trova ormai ad un bivio: rimanere essenzialmente orientato ad una logica di produzione, o sposare invece la logica della capacità di integrazione di servizi etero-prodotti.
 
Si è parlato1, in questo contesto, della necessità che il SSN assuma un ruolo di ricomposizione sociale, di brokeraggio, atto a rispondere ad una crescente complessità e varietà dei bisogni della popolazione: sembra una istanza del tutto fondamentale per la sopravvivenza stessa del SSN. In effetti, l’empowerment dei cittadini e la smisurata crescita delle opportunità e delle aspettative, rende oggi sempre meno strategica una presa in carico basata sull’idea paternalistica di un completo affidamento del paziente al professionista o all’Istituzione; lievita, invece, l’importanza dell’integrazione: ovvero una presa in carico intesa come accompagnamento e supporto del paziente da parte dell’Istituzione, nella costruzione del suo percorso individuale.
 
L’aspetto è cruciale e non banale: malgrado le discussioni, spesso meramente ideologiche, sulle separazioni dei ruoli di produzione e committenza, negli anni il SSN ha continuato di fatto a rimanere essenzialmente (forse l’ultima) industria di Stato. Pur riconoscendogli una significativa capacità di razionalizzazione economica, l’eccellenza del SSN è piuttosto da ricercarsi nella capacità di integrazione delle risposte. Un ulteriore elemento è che ci sembra di poter proporre che un altro strumento di governo persosi negli anni, possa essere recuperato e rivalutato: di fronte alla crescente domanda di prestazioni complementari non si vede, infatti, perché le aziende pubbliche non possano sviluppare una offerta per cittadini solvendi, generando così nuove entrate in favore dell’assistenza complessiva (specie se il mercato si dovesse allargare alla mobilità internazionale in entrata, cosa per la quale esistono in verità tutti i presupposti); presumibilmente generando anche un positivo effetto calmierante sul mercato (al quale sono già molto interessati gli attori attivi nel mercato della Sanità complementare); e, infine, innescando benefici effetti in termini di efficienza delle strutture, grazie ai processi di imitazione/trasferimento delle best practices.
 
Una attività di questo tipo non è, però, pensabile possa esplicarsi all’interno delle attuali regole che governano le aziende pubbliche: si potrebbe allora sviluppare l’idea di “rami di azienda” soggetti a regole più tipicamente privatistiche, con un accreditamento separato e specifico per l’erogazione di prestazioni in forma complementare.
 
L’aspettativa è che aumenterebbe certamente la flessibilità, si genererebbe un benefico effetto sul governo manageriale delle aziende pubbliche e si regolerebbe meglio il mercato della Sanità complementare.
 
Concludendo, il sistema italiano ha dimostrato una grande capacità di resilienza; accusare il Federalismo dei mali residui della Sanità italiana, che poi sono effetti derivanti dalle note e irrisolte “questioni” della Società italiana (prima di tutto la questione meridionale e poi quella fiscale) è almeno ingeneroso. Pensare che riaccentrare il potere in Sanità sia la panacea di tutti mali è aspettativa miope, destinata a infrangersi sull’evidenza di quelli che sono i veri nodi al pettine per garantire la durabilità del SSN: prima di tutto la capacità di governare la ricerca di una coerenza fra aspettative e risorse, salvaguardando allo stesso tempo l’equità complessiva delle risposte pubbliche; per ottenere ciò va governata la transizione del SSN, da attore unico capace di fornire una risposta globale, ad attore compartecipe e integrato di un sistema complesso composto da offerte diversificate. Questo pone la necessità di una diversa vision sul ruolo del SSN e nuove regole per governare l’integrazione dei diversi attori che si affacciano sul mercato. Da ultimo, ma non per importanza, è poi necessario integrare nei processi decisionali le istanze di cui i diversi stakeholder del sistema sanitario sono portatori, utilizzando processi valutativi multi-prospettiva, e reintroducendo elementi di flessibilità nelle scale di valutazione della meritorietà sociale.
 
Federico Spandonaro
Tratto dall'executive summary del XII Rapporto Crea

13 dicembre 2016
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