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Ecco perché il nostro universalismo sanitario è diventato “diseguale”

di Federico Spandonaro

29 OTT - Il titolo scelto per l’11° Rapporto Sanità, “L’Universalismo diseguale”, come tradizione del nostro lavoro nasce da un tentativo di lettura quantitativa dell’evoluzione del sistema sanitario italiano; evidentemente la scelta del titolo tradisce il tentativo di segnalare che osserviamo fenomeni che, alcuni in modo strisciante, altri in modo più prorompente, risultano incoerenti con la linea politica che ha portato all’istituzione del Sistema Sanitario Nazionale universalistico in Italia.
 
Va subito premesso che Universalismo diseguale non è, necessariamente, una contraddizione in termini; e neppure implica automaticamente l’iniquità del sistema: avremmo forse potuto dire anche “Universalismo imperfetto”.
 
Già in tempi “non sospetti”, infatti, abbiamo espresso nelle pagine del Rapporto l’idea che fosse necessario rivalutare il concetto di equità verticale (trattamento “diseguale” di bisogni diversi): una rivalutazione del concetto che abbiamo ritenuto opportuna perché il principio è spesso negletto nel dibattito di politica sanitaria, storicamente sbilanciato sul versante dell’equità orizzontale, che per lo più traduce il “naturale” sentimento per cui “davanti alla Sanità/Salute” dobbiamo essere tutti uguali.
 
Vorremmo, in altri termini, evitare interpretazioni che possano far pensare ad una adesione alla posizione, che si tramuta facilmente in una sterile deriva antifederalista, per cui il vero attentato all’Universalismo risiede nella creazione di 21 sistemi sanitari regionali, la cui diversità, effetto degli “egoismi” e delle “inefficienze” locali, genererebbe di per sé grave nocumento all’Universalismo e al diritto dei cittadini alla tutela della salute.
 
Posizione che non possiamo condividere di fronte all’evidenza che gli obiettivi del federalismo, primo fra tutti quello della responsabilizzazione finanziaria regionale, ma anche quello della razionalizzazione dell’offerta, sono stati in larga parte raggiunti: e anzi, è proprio in alcuni nodi irrisolti a livello centrale che risiedono, a nostro parere, rischi di tenuta del sistema. In continuità con i precedenti Rapporti Sanità, sposiamo la tesi per cui la complessità (intrinseca nel settore sanitario) è naturalmente permeata di fattori di “diversità”, che non è corretto combattere per “ragioni di principio”; sono infatti enzimi essenziali per una evoluzione del sistema, purché adeguatamente governati.
 
L’evoluzione del sistema, si potrebbe dire meglio il suo ammodernamento, richiede infatti cambiamenti che, di contro, sembrano invisi ai più. La razionalizzazione del sistema, giusta ambizione, è stata sin qui condotta cercando di rimuovere elementi ritenuti “tumori” dello stesso (l’intromissione della politica, le inefficienze, la carenza di etica, etc.), implicitamente assumendo che il disegno originale rimanesse adeguato in ogni sua parte e che, quindi, bastasse rimuoverne le patologie. Nel dibattito di politica sanitaria sembra in qualche modo predominante una posizione “creazionista”, nel senso di considerare l’affermazione dell’Universalismo acquisita con la istituzione del SSN: in questa ottica, obiettivo della politica sanitaria diventa il preservare il sistema da ogni attacco esterno e quindi da ogni cambiamento che possa metterne in pericolo l’assetto sostanziale definito alla fine degli anni ‘70.
 
Difendere la conquista dell’Universalismo è certamente condivisibile, sebbene rileggendo la L. 833/1978 appare chiaro che ben altre erano le “vere” priorità: prima fra tutte la riduzione degli squilibri regionali e anche una visione olistica, integrata dell’approccio alla salute; la prima non è mai stata raggiunta e la seconda, come vedremo, inizia a scricchiolare.
 
Nel nostro Paese quello dell’Universalismo è principio largamente condiviso, e ritenuto, giustamente, una conquista di civiltà, permeata di grande valore politico e culturale: molto meno praticato è il tema della riduzione delle disuguaglianze, che cercheremo di mostrare come prosperino nell’“Universalismo diseguale”.
 
Analogamente sembra sfuggire che quella che è stata definita la politica dei “silos”, ormai imperante in Sanità, è la negazione in termini dell’approccio olistico sottostante la L. 833/1978. In altri termini, il dibattito sulla difesa dell’Universalismo va contestualizzato, e operando in tal senso si iniziano a intravedere alcune contraddizioni nelle posizioni che si pongono come paladine di una strenua difesa dell’assetto originario del SSN.
 
I paladini dell’Universalismo, ad esempio, sono per lo più anche convinti assertori dell’esistenza di forti livelli di inefficienza nel SSN (prima) e dei SSR (ora),anche perché tendono a individuare in tale fattore la ragione unica di rischio di fallimento del sistema. A fronte di una spesa che, da anni, segnaliamo essere molto inferiore a quella degli altri Paesi europei, e a livelli di salute che, come vedremo, almeno per ora rimangono superiori, considerare l’inefficienza il principale difetto del sistema appare quanto meno discutibile.
 
L’inefficienza sembra essere diventata l’alibi, per una classe politica ormai disabituata a proiettarsi nel futuro, per non voler ipotizzare nuovi assetti nel settore: d’altra parte, ogni cambiamento ha costi politici e, evidentemente, nel caso specifico la percezione è che non sarebbero controbilanciati dai benefici: d’altronde, se davvero può essere sufficiente ridurre la sacca di inefficienza per mantenere il sistema Universalistico (e quindi “perfetto” per definizione) così come è, perché assumersi i rischi del cambiamento?
 
Nell’ottica descritta, emerge che, paradossalmente, le posizioni riformatrici degli anni ’70, ergendosi ora a difesa quasi oltranzistica degli assetti attuali, sebbene con la giustificazione della difesa dell’Universalismo, rischiano di tramutarsi in posizioni conservatrici.
 
Finché rimarrà in cima all’agenda politica il tema dell’inefficienza difficilmente si determinerà un incentivo al vero cambiamento: posizione assolutamente miope in base ai dati disponibili, ma certamente dominante. Si tratta di una idea che permea la cultura politica (e in parte tecnica) del Paese, tant’è che non c’è anno (o finanziaria o legge di stabilità che sia) in cui non fioriscano i rumors, con relative smentite, di nuovi tagli al finanziamento della Sanità pubblica; ex post duole poi ammettere che per lo più i rumors “vincono” sulle smentite, e qualche taglio si verifica sempre, ovviamente sempre “tecnicamente” giustificato dalla riduzione degli sprechi.
 
Le promesse di mantenimento del finanziamento (da ultimo nel Patto della Salute), sono, anno dopo anno, smentite dai fatti, come anche quelle di non toccare i settori che più sono stati oggetto di interventi, prima di tutto il farmaceutico.
 
Questo approccio non sembra essere più sostenibile, sia perché ha effetti non trascurabili tanto sul sistema sanitario, quanto su quello industriale, sia perché i dati dicono che non è questa la vera priorità. Quello sin qui realizzato è un Universalismo non omogeneo, crescentemente diseguale, e che dopo oltre 30 anni è forse doveroso chiedersi se non dipenda anche da qualche elemento di obsolescenza del disegno originario.
 
Federico Spandonaro
Dall’introduzione all’11° Rapporto Sanità del Crea-Tor Vergata

29 ottobre 2015
© Riproduzione riservata

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