La gestione dell’innovazione terapeutica nell’ambito dell’osteoporosi e della fragilità ossea. È stato questo l’argomento al centro del secondo incontro virtuale di una serie di tavoli regionali organizzati da Fondazione Charta, con il contributo non condizionante di UCB, dal titolo “Open discussion sul valore delle nuove terapie farmacologiche nel trattamento dell’osteoporosi severa in donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura”. Il convegno ha voluto affrontare la tematica in Regione Sicilia e ha visto la partecipazione di Achille Caputi, Professore ordinario Farmacologia, Università di Messina; Ippazio Cosimo Antonazzo Fondazione Charta; Fulvio Moirano, CEO, Fucina Sanità; Agostino Gaudio Università degli Studi di Catania; Antonino Catalano Università degli Studi di Messina; Maurizio Pastorello Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo; Mario Bentivegna Reumatologo Ragusa; Giulia Letizia Mauro Università degli Studi di Palermo, Giovanni D’avola Reumatologo ASL 3 Catania; Calogero Russo ASP Enna
Per poter parlare di innovazione terapeutica e di costo efficacia è necessario inquadrare prima la patologia, le sue risultanze sul Servizio sanitario nazionale e sui pazienti ed i precedenti trattamenti. L'osteoporosi è una malattia sistemica dell'apparato scheletrico, caratterizzata da una bassa densità minerale e dal deterioramento della micro-architettura del tessuto osseo, con conseguente aumento della fragilità ossea. Questa situazione porta ad un aumentato rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, polso, omero, caviglia) per traumi anche minimi. L’incidenza di fratture da fragilità (FF) aumenta con l’aumentare dell’età, particolarmente nelle donne. Nel corso della vita, circa il 40% della popolazione incorre in una frattura e in Italia si stima che l’osteoporosi colpisca circa 5.000.000 di persone, di cui l’80% sono donne in post menopausa. Le FF per osteoporosi hanno rilevanti conseguenze, sia in termini di mortalità che di disabilità motoria, con elevati costi sia sanitari sia sociali. Inoltre, l’effetto della terapia antifratturativa è tanto maggiore quanto maggiore è il rischio iniziale.
Si capisce bene quanto sia importante per questa patologia l’azione di prevenzione primaria e secondaria. Come precisato da Achille Caputi, il rischio di una seconda frattura osteoporotica aumenta durante l’intero follow up e il rischio rimane imminente anche negli anni successivi. Inoltre, nelle donne in menopausa, una frattura, indipendentemente dall’essere traumatica o meno, comporta un rischio aumentato di nuova frattura. Ecco perché è importante intervenire tempestivamente con una terapia farmacologica: “Se andiamo a considerare i trial clinici vs placebo o vs vitamina D, vediamo che qualunque trattamento oggi disponibile comporta una riduzione del rischio di rifrattura. Possiamo quindi dedurre – ha precisato Caputi – che i soggetti che hanno già subito una frattura da fragilità sono maggiormente a rischio di ulteriori fratture e che il rischio aumenta al crescere del numero e della severità delle precedenti fratture. Inoltre, il rischio sembra elevato immediatamente dopo la prima frattura specialmente nell’anno seguente e tale condizione e rimane fino ai 10 anni successivi”. I farmaci che sembrano agire in modo più efficace nella prevenzione di una rifrattura “sono i farmaci anabolizzanti come la teriparatide o il romosozumab”, ha proseguito l’esperto.
Ma facciamo un passo indietro. “L’osso viene continuamente rimodulato: abbiamo due distinti meccanismi, uno di modellamento osseo in cui la formazione dell’osso inizia direttamente dagli osteoblasti su superfici quiescenti e poi abbiamo un rimodellamento osseo che inizia nel momento in cui l’osso comincia ad essere distrutto dagli osteoclasti”, ha spiegato Caputi. Questo meccanismo, che si ripete nel tempo, può subire modificazioni con il passare del tempo. La premessa è doverosa per inquadrare meglio l’argomento. Negli anni la ricerca scientifica è infatti riuscita ad intervenire, grazie a farmaci specifici, su questo meccanismo. Per molto tempo la cura dell’osteoporosi si è basata su una classe di farmaci cosiddetta ad antiriassorbimento, farmaci questi di prima linea che intervengono sugli osteoclasti e che riducono il rischio di fratture, ma che non intervengono sulla stimolazione degli osteoblasti e quindi sulla ricostruzione dell’osso. Con l’innovazione, grazie ai farmaci anabolici, siamo arrivati anche a questa nuovo approccio terapeutico. Il problema di questi ultimi è che “dopo aver eseguito una terapia con anabolici, sarà necessario un farmaco antiriassorbimento per evitare il declino della densità ossea”.
L’ultima frontiera dell’innovazione ci fa capire meglio quanto sia necessario un radicale cambiamento nel trattamento delle fratture da fragilità. “Nel processo di modellamento e rimodellamento dell’osso agisce anche la sclerostina, una glicoproteina prodotta dagli osteociti, la cui attività è quella di inibire l’attività degli osteoblasti. Bene, inibire con un anticorpo monoclonale la sclerostina porta naturalmente ad un aumento di formazione dell’osso”. Appare evidente quindi che “nei pazienti con rischio molto elevato (di rifrattura ndr), la terapia con farmaci ad attività anabolica o bone builder deve essere considerata di prima linea”, ha precisato Caputi. “Studi di comparazione tra farmaci anabolici/bone builder e anti-riassorbitivi suggeriscono inoltre di iniziare subito la terapia anabolica in questi pazienti ad alto rischio. Non solo, se confrontiamo i farmaci anabolizzanti con l’anticorpo anti-sclerostina, notiamo che quest’ultimo agisce molto prima ed in maniera molto più rapida con conseguente beneficio per i pazienti”.
Romosozumab “aumenta la produzione di matrice ossea da parte degli osteoblasti e il reclutamento di cellule osteoprogenitrici e riduce il riassorbimento osseo alterando l’espressione dei mediatori osteoclastici”, ha proseguito l’esperto. Inoltre, il farmaco è stato introdotto come prima scelta nella nota 79 dell’Aifa recentemente aggiornata, “sia per le fratture vertebrali o di femore sia per quelle non femorali e non vertebrali. È indicato per il trattamento dell’osteoporosi severa nelle donne in post-menopausa ad alto rischio di frattura; la dose raccomandata è di 210 mg una volta al mese per 12 mesi e alla fine di questo trattamento devono seguire farmaci antiriassorbitivi come bifosfonati o denosumab”, ha spiegato Caputi.
A complicare il quadro di questa patologia, vi è un altro problema che è quello dell’aderenza e della persistenza al trattamento. “L’aderenza ai farmaci può influenzare i risultati di una terapia molto più di quanto non faccia la scelta del farmaco più appropriato”, ha specificato ancora il professore emerito. “Dai dati del rapporto dell’Osmed 2020 si evince che l’alta aderenza, cioè quella indispensabile affinché il farmaco funzioni, nei pazienti con età dai 45 anni in su, è del 67%. Ciò significa che noi abbiamo corca il 30% dei pazienti in cui il trattamento è inefficace a causa della bassa aderenza allo stesso. Inoltre, la bassa aderenza aumenta con l’età”. Guardando alla persistenza, “nella stessa fascia di popolazione, i dati Osmed ci mostrano come solo il 50% circa dei pazienti è persistente al trattamento dopo un anno. In ultimo circa l’80% dei pazienti con pregressa frattura non riceve alcuna terapia per l’osteoporosi”. La motivazione di questo comportamento è da ricercare in diversi fattori che, secondo Caputi, vanno da una scarsa consapevolezza che il paziente ha dei rischi in cui incorre interrompendo il trattamento o non essendo ad esso aderente all’informazione a volte carente dei medici.
D’accordo sull’esigenza di migliorare l’aderenza terapeutica è anche Agostino Gaudio il quale aggiunge che è necessario un miglioramento anche per ciò che riguarda la diagnosi di osteoporosi e la prescrizione dei trattamenti. “Quando parliamo di osteoporosi parliamo di un disordine scheletrico che compromette la resistenza dell'osso e quindi predispone a un aumentato rischio di fratture”, ha precisato. In questo contesto, ha proseguito, “dobbiamo pensare che non esiste solo l'osteoporosi, esiste tutta una serie di osteoporosi e accanto alle forme primitive abbiamo forme secondarie che rappresentano circa 30-40% nelle donne e quasi 50% negli uomini. Ecco perché quando un paziente entra in ambulatorio noi non ci limitiamo alla valutazione della densità ossea, ma analizziamo tutta una serie di elementi per escludere forme secondarie di osteoporosi”. Quello della diagnosi dunque è un momento essenziale e “non è possibile immaginare oggi, nel 2022, avere centri o colleghi che possano prescrivere una terapia farmacologica senza avere almeno degli esami di primo livello”.
Quindi non solo migliorare la diagnosi di osteoporosi ma soprattutto prevenire le conseguenze di questa patologia e cioè le fratture. “Notoriamente le fratture si distinguono tra vertebrali e non vertebrali, ma quelle che hanno un impatto clinico notevole sono le fratture vertebrali e quelle femorali. Il problema grosso – ha proseguito l’esperto – è che le fratture per osteoporosi sono ahimè frequenti, sono spesso misconosciute, come le fratture vertebrali e sono gravate da notevole morbidità e mortalità”. Ora, i trattamenti ci sono “i farmaci sono tanti e sono molto efficaci e anzi in alcuni casi parliamo di riduzione anche del 50% di un evento”, ha sottolineato Gaudio spiegando come questa sia una percentuale molto alta rispetto ad altri settori della medicina. Ma occorre migliorare la prescrizione di questi farmaci “ragionando in termini di soglia terapeutica che è diversa dalla soglia diagnostica perché il rischio fratturativo va al di là della stessa densità ossea”, ha concluso l’esperto.
Ad inquadrare bene il problema delle fratture e della fragilità ossea è Antonino Catalano che ha ripercorso il lavoro fatto per la realizzazione delle Linee guida sulla “Diagnosi, stratificazione del rischio e continuità assistenziale delle Fratture da Fragilità” dell’Istituto superiore di sanità. Come sottolineato dall’esperto, in queste linee guida “non si parla di osteoporosi” ma si parla di “diagnosi, di stratificazione del rischio e di fratture da fragilità”. Per Catalano la vera sfida per il clinico è quella di riconoscere il paziente a rischio fratturativo imminente e per far questo è necessario riconoscere “l’evento sentinella”. Riuscire a fare questo significherebbe indirizzare il paziente verso un iter di prevenzione secondaria che lo preservi da successive fratture. Da queste linee guida “emerge un invito culturale al riconoscimento del rischio e alla ricerca della frattura”, ha spiegato Catalano. Questo perché: perché “più è alto il numero di fratture vertebrali, più è alto il rischio di successive fratture e ancora perché sappiamo anche che individuare una frattura moderata o severa è diverso dall’individuarne una vertebrale lieve”, ha proseguito.
Le linee guida trattano anche l’aspetto terapeutico e suggeriscono la migliore strategia e i farmaci più appropriati in base al singolo caso. “Come comportarsi, per esempio, nell'interruzione di un trattamento? Quanto tempo deve essere trattata una paziente con osteoporosi e come è opportuno pensare a una vacanza terapeutica nel pazienti con fragilità ossea? E quando eventualmente pensarla?” sono tutte domande a cui si risponde nelle linee guida, ha suggerito l’esperto. I farmaci ci sono e i più innovativi, come i bone builders, sono molto efficaci ma serve anche appropriatezza terapeutica. Quindi per Catalano il problema “è culturale” e l’invito, anche grazie alle linee guida che, ha ricordato, “costituiscono il punto di partenza” è quello a “riconoscere il paziente a rischio frattura, riconoscere le fratture e trattarli tutti nel modo più appropriato”, ha concluso.
Il rovescio della medaglia dell’innovazione, quando si parla di terapie avanzate e di patologie croniche, sono inevitabilmente i costi. E anche qui torniamo alle fratture che, in ottica di carico economico dell’osteoporosi, rappresentano “l’impatto maggiore”, ha rimarcato Ippazio Cosimo Antonazzo. Le fratture comportano dei costi “che vanno ad interessare sia il breve periodo sia il lungo periodo e sono costi che ricadono sia sui servizi sanitari, come le ospedalizzazioni, sia sulla società, come i costi attribuiti a giornate di lavoro perso”, ha proseguito l’esperto.
Naturalmente ci sono differenze a seconda del sito di frattura, con la frattura all’anca che comportano un dispendio economico maggiore perché comporta quasi sempre un ricovero. A proposito di ciò, ha precisato Antonazzo “l’Italia si colloca tra i paesi che hanno tempi di degenza più lunghi, perché si stima che l'ospedalizzazione in media duri circa 20 giorni” con un costo medio per le fratture d’anca di circa 21 mila euro per paziente. Per quanto riguarda i costi associati alla frattura, inoltre, parliamo di circa 9,5 miliardi di euro all’anno, spesa questa destinata ad aumentare fino a circa 12 miliardi nel 2030, ha precisato ancora Antonazzo. A questi costi si aggiungono quelli legati alla perdita di produttività dei soggetti con osteoporosi. Nonostante la maggior parte delle fratture da fragilità si verifichi in pazienti anziani, quando ciò avviene in età lavorativa, in Italia, si stima “che si perdano circa 95 giorni lavorativi per mille individui”. A ciò si legano anche i costi riguardanti l’assistenza del paziente da parte di famigliari e caregiver che si stima perdano circa “640 ore di lavoro all’anno”.
Migliorare la cura dell'osteoporosi puntando sulla prevenzione delle fratture e quindi ridurre i costi a queste associati sono una sfida complessa per i servizi sanitari, ma è anche una di quelle sfide che passa necessariamente dall’innovazione terapeutica. Se pensiamo poi che l’osteoporosi è una patologia legata all’età e che la popolazione globale sta invecchiando, capiamo quanto sia importante cogliere questa sfida.
“Da uno studio svedese condotto per valutare il rapporto costo efficacia di Romosozumab, somministrato in combinazione con alendronato, rispetto all’uso di alendronato da solo”, ha spiegato l’esperto, si evince una riduzione dei costi legati alle morbidità e alle ospedalizzazioni, un aumento di investimenti in termini di spesa farmaceutica a fronte però di un aumento di QALY, cioè anni di vita aggiustati in base alla qualità, e un aumento di aspettativa di vita.
“Attualmente non sono ancora disponibili studi di budget impact sull’Italia ma solo dati preliminari”, ha proseguito Antonazzo. Ad esempio in un’analisi condotta sullo switch tra romosozumab e teriparatide, “si è stimato che il numero di pazienti target sia compreso tra i 28mila soggetti il primo anno e i 31mila al terzo anno di simulazione e che romosozumab possa portare ad un notevole risparmio di risorse. Questo risparmio – ha concluso Antonazzo - dovrebbe essere visto anche alla luce della genericazione di alcuni farmaci che avverrà nei prossimi anni e che consentirà di liberare delle risorse che potrebbero essere allocate per poter mettere in commercio dei trattamenti che magari potrebbero risultare leggermente più costosi, ma che potrebbero portare un beneficio maggiore al paziente”.
Serve dunque un cambio di paradigma anche a livello organizzativo dall’alto. A ravvisare però qualche perplessità sulle effettiva possibilità di un cambiamento vero è Fulvio Moirano. Da sempre i decisori hanno posto la loro attenzione sul problema dei costi e della spesa e i 15,6 miliardi previsti per la Missione salute dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) non sono pochi. “Purtroppo molti di questi sono destinati all’edilizia e meno alla gestione ordinaria”, ha ricordato Moirano. “Sono previste un numero enorme di case della comunità, ma lo sforzo è sempre concentrato sulla salvaguardia di ospedali a volte anche inutili. Rimane invece una grande difficoltà nell’attivare una vera presa in carico del paziente a livello territoriale, al domicilio e in integrazione con l’ospedale”. Il rischio, dunque, è quello di non riuscire a realizzare tutte le case di comunità previste e quindi di non riuscire a prendere in carici “i circa 8 milioni di pazienti cronici con una sola patologia e i circa 5 milioni di pazienti con patologie multiple”, gruppo quest’ultimo in cui si possono inserire i pazienti con osteoporosi.
Rimane aperto un problema di governance. Nonostante nei primi 6 mesi del 2022 si siano sottoscritti i Contratti Istituzionali di Sviluppo previsti tra lo Stato e le Regioni, è necessario “un ripensamento di tutte le procedure sia per l’introduzione dell’innovazione sia per la gestione della quotidianità”, ha precisato ancora l’esperto. “Serve ora mettere in pratica ciò di cui si parla da anni”, cioè rendere concreti gli interventi sul territorio grazie al “DM 70 che razionalizzava la rete di offerta ospedaliera e che oggi vede congelata la sua revisione”, ha proseguito l’esperto. “Nel bilanciamento tra ciò che deve essere gestito dallo specialista e ciò che deve essere in continuità governato al di fuori si gioca la partita per colmare la differenza tra il dichiarato e l’agito”. La via da percorrere delineata da Moirano sarebbe quella di eliminare totalmente tutte le attività non necessarie all’interno dell’ospedale e attuare dei cambiamenti in discontinuità.
In Regione Sicilia, per ciò che risguarda l’ASP di Palermo, da tempo vi è un problema di prescrizione di farmaci. Da circa 15 anni, ha sottolineato Maurizio Pastorello, l’utilizzo di farmaci per l’osteoporosi è sotto attenzione in quanto “abbiamo sempre registrato una maggiore prescrizione rispetto a quello che è il dato medio nazionale. Tanto per fare un numero, 1/3 del fatturato dell'azienda produttrice di teriparatide era venduto nella provincia di Palermo e ancora oggi i nostri dati relativi alle prescrizioni sono elevati”. Questo è il motivo per cui l’arrivo del biosimilare è stato visto con positività e “l’ASP di Palermo ha un utilizzo di biosimilare che è intorno al 96% rispetto all'89% della Sicilia e il 58% d'Italia”, ha proseguito l’esperto.
Quella di Palermo è l’ASP “capofila della regione Sicilia per quanto riguarda gli acquisti”, ha precisato. Per quanto riguarda l’accesso alle terapie, “l'obiettivo che ci è stato dato dalla Regione, in quanto capofila, era quello di uniformare i piani terapeutici e informatizzare tutti i piani terapeutici che per i farmaci che sono oggetto di distribuzione per conto” come, per esempio, il denosumab. Per quanto riguarda il romosozumab, nel momento in cui il farmaco verrà inserito nel prontuario terapeutico regionale, come prevede la regione Sicilia, questo potrà essere acquistato e utilizzato. “Possiamo presupporre – ha detto Pastorello – che verrà stabilita la distribuzione per conto”.
L’interrogativo importante posto da Pastorello riguarda le note AIFA. Ogni quanto andrebbero riviste? Si chiede l’esperto. “Essendo ormai diventate degli strumenti di appropriatezza dovrebbero essere anche legate alla real word e quindi essere riviste maggiormente. Non essendo più legate solo ad un discorso economico, bisognerebbe lavorare per far sì che le note siano riviste più velocemente”.
Per Mario Bentivegna l’osteoporosi può essere considerata una malattia orfana ma non nel senso medico del termine: “è una patologia che appartiene a tanti ma non appartiene a nessuno”, ha detto Bentivegna, perché manca consapevolezza. “Dobbiamo capire realmente che questa è una patologia subdola e come tale bisogna sicuramente stimolare non solo la consapevolezza da parte dei pazienti stessi, coloro che possono andare incontro a questa patologia, ma anche della classe medica, a rendersi conto realmente del rischio che noi abbiamo nei pazienti perché questa è una patologia che si manifesta con la frattura”, ha proseguito. La situazione è critica dunque: “Non c'è la consapevolezza del rischio di frattura, e non c’è la consapevolezza di utilizzare farmaci che possono essere utilizzati continuativamente nel tempo senza avere le solite finestre di sospensione farmacologica”. Inoltre, “quando parliamo di prevenzione secondaria, o di prevenzione primaria, probabilmente da parte di alcune specialità, non esiste la consapevolezza di andare a trattare in maniera adeguata da questa patologia”, perché non basta un approccio multidisciplinare, serve un approccio educativo e di sensibilizzazione.
La risposta potrebbe venire dalla creazione di centri dedicati all’osteoporosi. Di questo avviso è Giulia Letizia Mauro. “Soltanto il centro che si occupa in modo specifico dell'osteoporosi può dare la possibilità al paziente di essere seguito in modo corretto”, ha precisato. “Nella regione Sicilia bisognerebbe scegliere quali sono i centri che si occupano di osteoporosi, dividendoli per parte occidentale e parte orientale” perché questo produrrebbe un beneficio per il paziente che verrebbe seguito con più appropriatezza ma anche “una riduzione della spesa pubblica”.
Altro problema per Letizia Mauro è sicuramente legato all’informazione. “Ancora oggi dalle ortopedia in Sicilia il paziente con frattura esce senza il trattamento farmacologico e questo comporta delle spese spaventose”. Serve quindi fare informazione su quella che è la prevenzione prima e, soprattutto, sulla prevenzione secondaria per combattere il rischio di rifrattura. Punto di partenza di questa campagna informativa “devono essere i medici di medicina generale”, ha concluso.
Il problema della scarsa informazione è condiviso anche da Giovanni D’avola che imputa la scarsa conoscenza della patologia da parte dei medici di medicina generale alla mancanza di percorsi formativi dedicati che hanno portato ad un calo dell’attenzione verso la patologia stessa. Ma il nocciolo della questione per D’avole non è questo. Il vero problema “è la mancanza di un PDTA e di linee guida che impongano, per esempio, ai fratturati di femore che escono dall’ospedale di assumere una terapia precisa”, quando invece vengono spesso prescritte “molecole che non servono assolutamente a nulla”, ha detto l’esperto. La chiave è quindi nel costruire dei percorsi dedicati e delle Fracture Liaison Service che porterebbero ad un beneficio sociale in termini di qualità di vita per i pazienti e migliore percorso di cura e ad un risparmio di risorse. “Intervenire immediatamente al post operatorio porterebbe a limitare il danno di osteoporosi”, ha concluso.
Per Calogero Russo il successo della gestione e del trattamento dell’osteoporosi lo può fare la differenza tra prescrivibilità e rimborsabilità ed in questo senso linee guida e Aifa dovrebbero muoversi nella stessa direzione altrimenti il medico si potrebbe trovare nella condizione di essere obbligato a prescrivere un farmaco che non è a carico del Servizio sanitario nazionale perché Aifa non lo rimborsa. L’ASP Enna è una realtà piccola, ha ricordato Russo, in cui non c’è il reparto di reumatologia e quindi l’osteoporosi viene trattata da diversi specialisti singolarmente. Dai dati del data base dell’azienda risulta in trattamento con farmaci osteoporotici “un buon numero di pazienti” che però progressivamente abbandonano la terapia dopo i primi sei mesi. Anche Russo quindi ha evidenziato come sia evidente il problema dell’aderenza che potrebbe anche dipendere da una condizione economica non favorevole a sostenere una spesa elevata per i farmaci.