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“Non è vero che dove si fanno più tamponi si muore di meno, è un falso mito. Quello che conta è la tempestività delle cure e per farlo basta un esame clinico”. E sulla Fase 2: “Gli effetti delle aperture si vedranno solo a fine mese”. Intervista a Pier Luigi Lopalco

di Giovanni Rodriquez

"Per fare la diagnosi Covid non si può puntare solo sul tampone. Sarebbe come aspettare l’esito di tutti gli esami di laboratorio per avviare la terapia di un infartuato. Per il Covid si è perso di vista quello che è il ragionamento clinico del medico. Il medico può lavorare lo stesso anche senza il supporto diagnostico". "Anche per questo immaginare uno standard quantitativo minimo di tamponi uguale per tutte le Regioni è sbagliato, quello che serve è un criterio unico sul metodo per effettuate i tamponi". Parla l'epidemiologo alla guida del team scientifico di supporto alla Regione Puglia

10 MAG - Non ha senso imporre uno standard minimo di tamponi giornalieri, quello che serve è piuttosto un criterio condiviso sulla politica di utilizzo dei tamponi. L’importante non è il test in sé, ma se io curo o no precocemente i pazienti. Con il Covid-19 ci si è dimenticati che il medico può lavorare lo stesso anche senza il supporto diagnostico.
 
Così Pier Luigi Lopalco, Professore d’igiene all’università di Pisa e parte della Task Force per le emergenze epidemiche in Puglia, fa il punto della situazione a Quotidiano Sanità, ribadendo l'importanza di farsi trovare pronti per il prossimo autunno, quando oltre al Covid-19 arriverà la nuova stagione influenzale e sarà necessario poter contare su una capacità di laboratorio molto robusta.
 
Professor Lopalco, a livello nazionale partirà un’indagine con test sierologici su un campione rappresentativo di 150.000 persone, contestualmente, però, ogni regione sembra muoversi per proprio conto. La Toscana ha annunciato i dati di una sua prima indagine sulle categorie più esposte che verrà ora ampliata, il Lazio ha avviato un’altra indagine su 300.000 persone, il doppio del campione nazionale. Sono utili o si rischia di generare solo confusione?
L’indagine nazionale è sicuramente utile in quanto fatta con un criterio scientifico preciso e con un campionamento realizzato dall’Istat rappresentativo di ogni regione, per fascia d’età, sesso e attività lavorativa. La forza di questo studio, inoltre, è che questo verrà eseguito con un unico test a livello nazionale. E questo è fondamentale. Perché, ad esempio, io non posso sapere ad oggi di quanto la Toscana abbia sovrastimato o sottostimato i casi rispetto all’indagine condotta nel Lazio. Grazie ai dati nazionali potremo invece avere una fotografia della situazione. Ormai in ogni Regione abbiamo una curva epidemica che piano piano si sta spegnendo. Quindi sappiamo cosa i sistemi di sorveglianza sono andati a ‘pescare’ in tutte le Regioni. Se ora, grazie all’indagine nazionale di sieroprevalenza, si avrà una fotografia che mi permetterà di sapere quante persone hanno incontrato il virus nei due mesi precedenti, riuscirò anche a capire come hanno funzionato i vari sistemi di sorveglianza. 
 
In che modo?
Perché a quel punto sarò in grado di fare una stima, molto solida dal punto di vista statistico, delle infezioni che il sistema di sorveglianza non ha rilevato, magari in quanto i soggetti erano totalmente asintomatici.
 
Quindi le indagini regionali non servono?
No se pensiamo di poterne trarre dati utili in termini di confrotno nazionale.
 
Sono inutili quindi?
Neanche questo è vero. Se ad esempio in Puglia ho bisogno di sapere se il virus ha circolato di più in un ospedale di Foggia o in uno di Lecce, è corretto a quel punto organizzare un’indagine regionale di test sierologici perché le risposte che cerco a livello locale sono diverse da quelle a cui si sta tentando di rispondere a livello nazionale. Quello che non sarà possibile fare è un confronto tra i risultati di queste indagini regionali, dal momento che questi test sono molto diversi l’uno dall’altro. Lo studio nazionale sarà invece un po’ la ‘tara’ sulla misura, e da quella tara io potrò capire come hanno funzionato i sistemi di sorveglianza.

Passiamo ai tamponi, da un'analisi di Gimbe emerge che ogni Regione va per conto suo. Si passa dai 222 al giorno per 100.000 abitanti a Trento ai 37 in Puglia. Serve uno standard minimo nazionale come chiesto da Gimbe?
Io non sono d’accordo con questo ragionamento. Secondo me quello su cui bisogna trovare un accordo non è uno standard quantitativo sul numero di tamponi da effettuare ma un criterio unico sulla politica di utilizzo della diagnostica con il tampone.
 
Si spieghi meglio.
Faccio un esempio: tra Veneto e Puglia c’è una differenza enorme per numero di tamponi eseguiti. Però in Puglia abbiamo 4.000 casi mentre in Veneto se ne registrano 180.000. Se io adottassi la stessa strategia di tamponi nelle due regioni, ossia una volta identificato un caso positivo sottopongo a tampone - ad anello - tutti i contatti di questo caso confermato, compresi quelli asintomatici, capisce bene che 18.000 casi mi genereranno un numero di tamponi enormemente superiore rispetto ai 4.000 casi della Puglia. Eppure la strategia è la stessa. Le faccio questo esempio proprio perché in Puglia noi portiamo avanti la stessa strategia attuata in Veneto facendo tamponi anche a contatti asintomatici. Quindi, a mio parere, è questo il metodo che va fatto mettendo insieme alcuni indicatori.
 
Ad esempio?
Ad esempio, quanti sono i casi di asintomatici che riusciamo ad individuare? In Puglia il dato si attesta attorno al 40%.
 
Lo stesso dato di Vo’ Euganeo, giusto?
Sì, il risultato sembra essere in linea con quello studio. La quota di asintomatici, quando si è in presenza di un focolaio epidemico, probabilmente è quella. Quindi, ripeto, non trovo sensato fissare uno standard quantitativo per il quale dovrei magari fare necessariamente almeno 4.000 tamponi al giorno. A quel punto dovrei uscire in strada e fare a caso 4.000 tamponi a 4.000 passanti, a cosa servirebbe? Il tampone va fatto per un motivo, in maniera mirata.

Il prof. Ricciardi in una recente audizione al Senato ha detto che in Fase 2 si dovranno eseguire tamponi anche all’insorgere dei minimi sintomi, siamo nelle condizioni di poterlo fare?
Sono assolutamente d’accordo con Ricciardi. Quanto al riuscire a farlo, dipende sempre molto dallo stadio dell’epidemia. Se i casi sono pochi ce lo possiamo permettere. Noi lo abbiamo fatto in Puglia. Abbiamo fatto tamponi sia all’insorgere dei minimi sintomi che agli asintomatici in contatto con soggetti positivi, ma questo perché abbiamo pochi casi. Secondo me il problema sul quale dovremmo concentrarci è quello di metterci nella condizione di poter attuare questa politica, quindi tampone anche ai minimi sintomi e a tutti i contatti per circoscrivere i focolai, quando arriverà l’autunno.
 
Perché proprio in autunno?
Perché lì ci troveremo in una situazione critica, con la stagione influenzale avviata, quando di casi di apzienti con febbre e tosse ne avremo tantissimi. L’importante è farci trovare pronti arrivando all’autunno con una capacità di laboratorio molto robusta. Su questo punto sono d’accordo sulla necessità di dover aumentare le nostre capacità diagnostiche, perché altrimenti rischieremmo di trovarci nella stessa situazione della Lombardia, dove ad un certo punto non si riusciva più ad avere capacità diagnostica a causa dell’elevato numero di casi, decidendo così di fare tamponi solo ai casi più gravi.

Il messaggio che sembra passare in questo momento è il seguente: più tamponi si fanno e meno si muore. Ma è davvero così?
Assolutamente no. Questa è una sciocchezza, sfatiamo questo mito. Se c’è una persona a casa con febbre e tosse, non è importante se io riesco a fargli il tampone o no. L’importante è se io lo curo o no precocemente. In questa situazione, a maggio 2020, se una persona ha febbre e tosse è Covid e va trattata come tale. Per cui devo avere tutte le precauzioni, devo mettere in atto tutto il follow up, devo stare attento che la tosse non peggiori, che la saturazione non vada giù e così via. Non è che il tampone mi va a modificare l’atteggiamento terapeutico. E’ importante capire questo. C’è poi un altro aspetto fondamentale.
 
Quale?
Il tampone ha una sensibilità bassa, sono tantissimi i falsi negativi. Ci sono persone con segno di polmonite alla Tac e tampone negativo. Poi si scopre il virus quando si fa broncolavaggio. Per far diagnosi non si può puntare solo sul tampone. Sarebbe come aspettare l’esito di tutti gli esami di laboratorio per la terapia di un infartuato. Se i segnali sono chiari, l’infartuato va trattato. Non so per quale motivo sia successo, ma per il Covid si è perso di vista quello che è il ragionamento clinico del medico. Il medico può lavorare lo stesso anche senza il supporto diagnostico.
 
La stima aggiornata Rt fatta dall’Istituto Kessler sembra evidenziare che in molte zone del Paese il dato sia in crescita nonostante la discesa dei contagi. In Puglia, ad esempio, al 5 maggio l'Rt è salito a 0,96, come mai?
Dobbiamo affinare un po’ il metodo con cui viene fatto quel calcolo, lo abbiamo anche scritto all’Iss in una nota. Perché questo viene fatto su alcuni parametri sui quali sarebbe necessario ragionarci un po’ sopra. Noi ad esempio lo calcoliamo in maniera diversa in Regione ed abbiamo un risultato più basso.
 
Ma com’è possibile in ogni caso che se nel momento in cui scende la curva dei contagi vediamo salire Rt in molte Regioni?
Quando diminuiscono i casi, indicatori come quello, hanno anche delle forbici statistiche più larghe e diventano meno stabili. Tanto che, non è un caso, la stabilità è molto minore in regioni che hanno pochi casi.
 
E’ vero, ad esempio la Basilicata in una settimana passa da Rt 0,35 a 0,88.
Certo, sa perché? Se una regione come questa passa ad esempio da 1 caso a 2 casi, questo viene calcolato come un Rt pari a 2. Se invece si passa da 1.000 casi a 999, quello è un Rt che scende. Non è un indicatore che può essere interpretato come una classifica del campionato come le squadre che salgono o scendono. Non funziona così l’epidemiologia. E’ una disciplina molto più complessa, vanno guardati nel loro complesso tutta una serie di indicatori e poi capire dove sta andando l’epidemia.
 
Questo può essere un po’ il limite di un modello matematico applicato all’epidemiologia?
Ma certamente.

Quando potremo capire se si è verificato un possibile cambiamento epidemiologico dopo i primi allentamenti in questa Fase 2?
Io penso che a fine mese ci renderemo conto della situazione, e non ci sarà bisogno degli Rt perché ce ne accorgeremo dai casi in ospedale.
 
Però il Dpcm che ha avviato la Fase 2 ha una scadenza temporale di 2 settimane, e sarà quello l’arco entro il quale valutare la situazione e decidere eventuali ulteriori aperture.
Questo è vero, ma è altrettanto vero che la situazione epidemiologicamente non cambia molto di 15 giorni in 15 giorni. Ripeto ci vorrà almeno un mese per vedere i primi effetti. Quello che poi andrà visto è il trend a partire dalla prima riapertura. O meglio dalla sera della conferenza stampa del presidente del Consiglio del 26 aprile, perché è da quel momento che la gente ha cominciato ad uscire di casa.
 
Condivide i criteri individuati dal Ministero Salute per il monitoraggio della situazione?
Certo, li abbiamo condivisi. Il Ministero della Salute li ha discussi prima con noi. Sicuramente è un bel set di indicatori che costringono tutte le regioni a misurare il fenomeno. 
 
Giovanni Rodriquez

10 maggio 2020
© Riproduzione riservata

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