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EASD/ Dai grandi studi nuove indicazioni per un trattamento del diabete 3.0

di Maria Rita Montebelli

Importanti nuovi concetti sono scaturiti dai grandi trial presentati all’EASD e pubblicati in contemporanea sulle principali riviste scientifiche internazionali. Da una parte la maggior ‘durabilità’ dei target glicemici ottenuta iniziando il trattamento del diabete con una terapia di associazione, al posto della classica monoterapia con metformina (studio VERIFY); dall’altra un farmaco anti-diabete che si rivela le sue performance anti-scompenso cardiaco anche nei soggetti senza diabete, suggerendo così un nuovo posizionamento rispetto alle sue indicazioni terapeutiche, attualmente al vaglio delle autorità regolatorie internazionali (studio DAPA-HF).

21 SET - Il lavoro sul diabete – ricorda il professor David Matthews, presidente dell’EASD (European Association for the Study of Diabetes) e responsabile dell’Oxford Center for Diabetes, Endocrinology, Metabolism - è incompiuto, come la ‘Sagrada familia’ di Antoni Gaudì, contestualizzando la metafora nella città (Barcellona) che ospita la 55° edizione del congresso europeo di diabetologia. Ma la ricerca in questo settore è ben vivace e fa dunque sperare per i milioni di persone affetti da questa condizione.
Tanti gli studi presentati a questa edizione, con pubblicazione contemporanea sulle principali riviste scientifiche internazionali. Da ognuno scaturiscono preziosi ‘bit’ di conoscenza che contribuiscono, passo dopo passo, a costruire cultura e a offrire un futuro migliore ai pazienti.

 
VERIFY: due farmaci sono meglio di uno, fin dalle prime battute del diabete di tipo 2  
 
Iniziare da subito il trattamento del diabete di tipo 2 con un’associazione DDP4 inibitore-metformina dà risultati migliori e più durevoli  sul compenso metabolico e sulle complicanze cardiovascolari , rispetto alla classica strategia ‘a gradini’ (iniziare solo con la metformina, poi aggiungere altre molecole al fallimento terapeutico). Sono in sintesi i risultati dello studio VERIFY, presentato all’EASD e pubblicato in contemporanea su Lancet.
 Le attuali linee di trattamento sul diabete di tipo 2, stilate dalle società scientifiche di tutto il mondo raccomandano di adottare una terapia ‘a gradini’ per il trattamento di questa condizione, che inizi (a meno di intolleranze o controindicazioni) con la metformina. Al fallimento terapeutico, le linee guida consigliano di aggiungere una seconda, una terza molecola e così via (intensificazione sequenziale). Questo studio clinico di fase IV  è andato a verificare se, impostare dall’inizio una terapia di combinazione con metformina e un DDP4 inibitore (vildagliptin), potesse dare risultati migliori rispetto alla classifica terapia iniziale basata sulla sola metformina. Lo studio multicentrico, randomizzato, in doppio cieco, durato 5 anni ha arruolato 2001 pazienti con diabete di tipo 2 neo-diagnosticato e lieve iperglicemia (emoglobina glicata all’ingresso compresa tra 6,5 e 7,5 %). I pazienti sono stati randomizzati a metformina (1000, 1500 o 2000 mg) e inibitore di DPP4 o alla sola metformina (più placebo). Endpoint primario era l’intervallo di tempo prima del fallimento terapeutico (inteso come una glicata risalita oltre il 7%, in due controlli distinti a distanza di tre mesi uno dall’altro). Il follow-up è durato 5 anni. I risultati dello studio dimostrano che adottare da subito una terapia di combinazione, riduce del 49% il rischio relativo dell’intervallo di tempo prima del fallimento terapeutico, rispetto alla monoterapia con metformina e aiuta i pazienti a mantenere valori di glicata inferiori rispetto a quelli trattati inizialmente con la sola metformina e poi passati alla terapia di associazione.
 
“Iniziare subito il trattamento del diabete con una terapia di associazione – commenta il professor Stefano Del Prato, coautore dello studio, Ordinario di endocrinologia all’Università di Pisa e presidente dell’EFSD (European Foundation for the Study of Diabetes) - consente di offrire ai pazienti la possibilità di raggiungere gli obiettivi glicemici prima, meglio e di mantenerli più a lungo. Significa agire in maniera proattiva, senza dover ‘correre dietro’ alle persone che perdono il compenso metabolico. Questo contribuisce inoltre da una parte a migliorare la compliance del paziente, dall’altro ad uscire dall’empasse dell’inerzia terapeutica. Questi risultati potrebbero portare nel 2020 ad una revisione delle linee guida di trattamento.
Sul fronte del miglioramento delle complicanze, questo studio non può dare risposte definitive perché interessando persone con diabete neo diagnosticato, non ha ‘catturato’ durante i 5 anni di follow up un gran numero di eventi. “I dati raccolti, per quanto esigui e dunque privi di significatività statistica, suggeriscono però – conclude il professor Del Prato – che la terapia di combinazione precoce potrebbe dare benefici anche in termini di risparmio delle complicanze cardiovascolari”.
 
“La terapia di associazione fornisce dunque benefici di maggior portata e durabilità ai pazienti. Le attuali linee guida di trattamento del diabete di tipo 2 – ricorda il professor David Matthews, presidente dell’EASD - di iniziare con la metformina per poi passare ad un’intensificazione del trattamento ma questa strategia si è dimostrata inferiore, stando ai risultati di questo studio”.
VERIFY è uno studio proof-of-concept che dimostra come trattare da subito il paziente con diabete di tipo 2 neo-diagnosticato con un’associazione di due farmaci (in questo caso vildagliptin-metformina) riduca in maniera significativa la probabilità di un iniziale fallimento terapeutico, allungando l’intervallo di tempo prima del fallimento terapeutico e della terapia insulinica, rispetto alla monoterapia, nei pazienti con diabete di tipo 2 neo-diagnosticato
 
 
DAPA-HF: il farmaco anti-diabete dalla vocazione anti-scompenso cardiaco (anche se il diabete non c’è)
 
Questo studio, i cui risultati preliminari erano stati presentati un paio di settimane fa al congresso della società europea di cardiologia (ESC), viene di nuovo presentato all’EASD, arricchito di nuovi dati, in occasione della sua pubblicazione su New England Journal of Medicine.
La prevalenza dello scompenso cardiaco nei soggetti con diabete di tipo 2 è circa il doppio che nella popolazione generale. Dapagliflozin appartiene alla classe degli SGLT-2 inibitori; gli studi clinici condotti con questa molecola hanno dimostrato che il farmaco non solo aiuta a tenere sotto controllo i livelli di glicemia ma migliora anche una serie di condizioni cardiovascolari. Studi precedenti avevano dimostrato come dapagliflozin fosse in grado di ridurre il rischio di comparsa di scompenso cardiaco; DAPA-HF è andato a valutare se il farmaco potesse essere utilizzato anche per trattare i pazienti con scompenso cardiaco già conclamato, in presenza di diabete o meno.
 
Il DAPA-HF ha dimostrato che, nei pazienti con scompenso cardiaco a bassa frazione d’eiezione, il rischio di un peggioramento dello scompenso cardiaco o di mortalità da cause cardiovascolari è inferiore tra i soggetti trattati con dapagliflozin (un inibitore di SGLT2), rispetti ai controlli, a prescindere dal fatto che siano diabetici o meno. L’idea di disegnare un trial su pazienti con scompenso cardiaco a ridotta frazione d’eiezione, anche non diabetici, è scaturita dai risultati dello studio DECLARE-TIMI 58 che aveva dimostrato un vantaggio di dapagliflozin sullo scompenso, indipendente dalla riduzione dei valori di glicemia. McMurray e colleghi sono dunque andati a testare l’ipotesi che dapagliflozin potesse ridurre un endpoint composito di peggioramento dello scompenso cardiaco (ricovero o visita ambulatoriale urgente per effettuare una terapia endovenosa) e mortalità cardiovascolare, in un gruppo di pazienti con scompenso a ridotta frazione d’eiezione, con o senza diabete.
 
Questo studio di fase 3, condotto su 4.744 pazienti con scompenso cardiaco (NYHA II-IV) a frazione d’eiezione ridotta (≤ 40%), solo il 45% dei quali era affetto da diabete. Tra i soggetti trattati con dapagliflozin (10 mg/die), rispetto a quelli del gruppo di controllo (placebo), questo endpoint è risultato ridotto del 26% (NNT 21), nel corso di un follow-up di 18,2 mesi. Anche gli endpoint secondari hanno mostrato un vantaggio per dapagliflozin (riduzione del numero dei primi e dei successivi ricoveri per scompenso, miglioramento della qualità di vita, riduzione della mortalità cardiovascolare). A fronte di questi benefici, il profilo di sicurezza della molecola è risultato eccellente, mentre eventi come deplezione di volume e ipoglicemia sono risultati non comuni.
 
“Il risultato più importante di questo studio – sottolinea il primo autore John McMurray dell’Università di Glasgow – sono i benefici di questo farmaco nei pazienti non diabetici. Questo dimostra che dapagliflozin è veramente un farmaco per lo scompenso cardiaco e non solo un farmaco anti-diabete. I risultati dimostrano  che dapagliflozin riduce sia la mortalità che i ricoveri e migliora la qualità di vita nei pazienti con scompenso a ridotta frazione d’eiezione, con o senza diabete. Le implicazioni cliniche di questi risultati sono enormi: pochi farmaci anti-scompenso raggiungono questi risultati e dapagliflozin li ottiene anche quando aggiunto alla terapia anti-scompenso abituale”.
 
“Vale la pena sottolineare – scrive in un editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicine James C. Fang, Division of Cardiovascular Medicine, University of Utah Health, Salt Lake City (Usa) - che questi benefici sono stati ottenuti aggiungendo dapagliflozin ad una terapia anti-scompenso già in atto e che sono stati osservati a prescindere dalla presenza o meno di diabete. L’entità del beneficio ottenuto con dapagliflozin è risultata simile a quella ottenuta nel PARADIGM-HF con il sacubitril-valsartan”.
C’è solo da sperare  – commenta ancora l’editorialista – che al dapagliflozin non tocchi la stessa sorte di sacubitril-valsartan. Le stime per il 2017 indicavano che erano in trattamento con questo farmaco solo il 15% dei pazienti che avrebbe potuto trarne beneficio. Speriamo di non dover attendere fino al 2022 prima di poter vedere in trattamento con gli SGLT2 inibitori il 15% dei pazienti con scompenso cardiaco a ridotta frazione d’eiezione .
 
Come sempre, insomma, tra i successi della ricerca scientifica e la pratica clinica, tra il dire e il fare, c’è da fare i conti con gli ostacoli burocratici e l’inerzia terapeutica. Ma c’è da augurarsi, per i pazienti innanzitutto, che questo non avvenga.
 
Maria Rita Montebelli

21 settembre 2019
© Riproduzione riservata

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