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Parkinson, le “resolvine” potrebbero aiutare a rallentarne lo sviluppo. Lo studio di UCBM, Tor Vergata e Fondazione Santa Lucia


Ricercatori italiani sono riusciti a contrastare il processo neurodegenerativo alla base della malattia di Parkinson grazie a queste molecole prodotte dal nostro organismo per riparare i danni provocati da infiammazioni. I risultati dello studio, pubblicati oggi su “Nature Communications”, potrebbero essere utili non solo per l’individuazione di terapie efficaci ma anche nell’anticipazione dei tempi di diagnosi della malattia.

03 SET - Lo sviluppo della malattia di Parkinson potrebbe essere rallentato grazie alle Resolvine, molecole prodotte dal nostro organismo per spegnere processi infiammatori e riparare i tessuti danneggiati da questi processi. Da tempo la ricerca sta puntando i riflettori sui possibili rapporti tra stati infiammatori e malattie neurodegenerative.

Nel nuovo studio pubblicato oggi su Nature Communications, Ricercatori dell’Università di Roma “Tor Vergata”, Fondazione Santa Lucia IRCCS e Università Campus Bio-Medico di Roma, hanno prima rilevato un ridotto livello di una specifica Resolvina, la Resolvina D1, in pazienti affetti dalla patologia e sono quindi intervenuti in modo sperimentale su modelli di laboratorio per riequilibrare la presenza di questa importante molecola nell’organismo animale. Il gruppo di ricerca è così riuscito a rallentare il processo neurodegenerativo che caratterizza la malattia di Parkinson.
 
“Lo studio – spiega in una nota Nicola Mercuri, Ordinario di Neurologia dell’Università di Roma Tor Vergata, Responsabile della Linea di Ricerca di Neuroscienze Sperimentali dell’IRCCS Santa Lucia e coordinatore dello studio – ci ha permesso di dimostrare che la proteina alfa sinucleina, nota per il ruolo chiave nello sviluppo della malattia di Parkinson, causa molto precocemente un cattivo funzionamento dei neuroni dopaminergici. Le conseguenze sono disturbi motori e cognitivi, ma anche un’aumentata neuroinfiammazione associata a ridotti livelli di Resolvina D1 che abbiamo osservato nel sangue e nel liquor cefalorachidiano di pazienti affetti da Parkinson, in cura presso il Policlinico di Tor Vergata”.
 
Partendo da questa osservazione, i ricercatori hanno somministrato Resolvina D1 in modelli di laboratorio e dopo due mesi di trattamento hanno potuto osservare una progressiva riduzione dello stato infiammatorio e del processo degenerativo che nella malattia di Parkinson provoca la nota distruzione dei neuroni deputati alla produzione di dopamina. Con essi si sono ridotti anche i sintomi motori e comportamentali caratteristici della malattia.
 
“Ad oggi la diagnosi di malattia di Parkinson avviene tardivamente, quando più della metà dei neuroni dopaminergici è già andata distrutta e non abbiamo terapie per rigenerarli  – sottolinea Marcello D’Amelio, Ordinario di Fisiologia Umana del Campus Bio-Medico di Roma e Responsabile del Laboratorio di Neuroscienze Molecolari dell’IRCCS Santa Lucia – Essere riusciti a intervenire in Laboratorio su un processo infiammatorio collegato a questa neurodegenerazione prima che i neuroni dopaminergici siano andati persi per sempre, fa ben sperare per future sperimentazioni cliniche in grado di rallentare o auspicabilmente arrestare lo sviluppo della malattia”.
 
I risultati dello studio, sottolineano i ricercatori, offrono nuovi spunti non solo per l’individuazione di terapie efficaci ma anche nell’anticipazione dei tempi di diagnosi della malattia. “È ragionevole ipotizzare che la presenza ridotta di Resolvine in pazienti affetti da Parkinson possa in futuro servire anche come marcatore precoce della malattia” – spiega Valerio Chiurchiù, Ricercatore dell’Unità di Biochimica dell’Università Campus Bio-Medico di Roma e dell’IRCCS Santa Lucia.
 
Lo studio ha visto anche la collaborazione dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dell’Università degli Studi di Perugia, dell’Università di Tubinga in Germania e dell’Università di Harvard negli Stati Uniti di America.

03 settembre 2019
© Riproduzione riservata

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