Secondo uno studio pubblicato sul British Medical Journal, infatti, i giochi mentali non servirebbero a ritardare il declino, ma chi li fa da quando è giovane avrà migliori capacità mentali e il declino partirà da un punteggio più alto a livello di facoltà mentale. La ricerca è stata coordinata da Roger Staff, dell’Università di Aberdeen, nel Regno Unito.
Lo studio
Staff e colleghi hanno valutato i dati raccolti dallo Scotland-wide testing del1947, condotto su tutti i bambini nati nel 1936.
Alcune di queste persone sono state poi reclutate per uno studio a lungo termine sull’invecchiamento, quando aveva 64 anni, e sono state riesaminate per cinque volte nei 15 anni successivi.
Durante le visite, uno psicologo somministrava test per valutare la memoria e la velocità di elaborazione mentale.
Il team di ricercatori si è concentrato su circa 500 partecipanti e ha anche esaminato i punteggi ottenuti da queste persone riguardo al loro coinvolgimento intellettuale, definito dai ricercatori come interesse, divertimento e partecipazione delle persone alla lettura, alla risoluzione di problemi e al pensiero di idee astratte, oltre che alla curiosità intellettuale generale.
I risultati
Nel complesso, Staff e colleghi hanno visto che un coinvolgimento intellettuale nella prima infanzia era associato a livelli elevati di coinvolgimento più in là negli anni. In particolare, un impegno precoce e continuo nelle attività di problem solving era legato a un ritardo del declino cognitivo in vecchiaia.
Tuttavia, le prestazioni cognitive sono diminuite per tutti nel tempo di circa un punto l’anno, indicando che il declino non può essere prevenuto.
“Se però il declino inizia da un livello superiore di abilità cognitive, probabilmente richiederà più tempo per raggiungere un livello evidente e interferire con il funzionamento mentale”, concludono gli autori.
“Anche se la cognizione diminuisce con l’età, i programmi di allenamento cognitivo mirati possono migliorare determinate abilità specifiche quando si è più avant nelgi anni”, sottolinea invece Karlene Ball, dell’Università dell’Alabama di Birmingham, non coinvolta nello studio.
Fonte: British Medical Journal
Carolyn Crist
(Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)
14 dicembre 2018
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