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Il microbioma intestinale ha effetti sulla tolleranza al glucosio e la steatosi epatica nei pazienti obesi


Secondo due nuove ricerche pubblicate su Nature Medicine alcuni composti chimici prodotti dai microbi che vivono nel nostro intestino contribuiscono al diabete di tipo 2 e alla steatosi epatica e possono essere utilizzati come primi segni premonitori della malattia, utilizzando un semplice esame del sangue.

27 GIU - Due nuove ricerche mettono in evidenza come  alcuni composti chimici prodotti dai microbi che vivono nel nostro intestino contribuiscono al diabete di tipo 2 e alla steatosi epatica e possono essere utilizzati come primi segni premonitori della malattia, utilizzando un semplice esame del sangue.
 
Pubblicate entrambe su Nature Medicine, nella prima ricerca un team internazionale, guidato da ricercatori dell'Imperial College di Londra, dell'Università di Girona, dell'Università di Roma Tor Vergata e dell'Inserm di Tolosa, ha studiato il legame tra le fasi iniziali della steatosi epatica (malattia del fegato grasso non alcolico o NAFLD) e l’insieme di batteri, virus e altri microbi che vivono nel nostro tratto digestive, chiamato microbioma. La steatosi epatica può portare a fibrosi e cirrosi, insufficienza epatica e cancro, oltre ad aumentare il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 e malattie cardiovascolari.
 
In questo studio, i ricercatori hanno prima osservato che nei pazienti obesi con fegato grasso il microbioma era poco diversificato rispetto a quello di soggetti con fegato normale, e in particolare arricchito di un tipo particolare di batteri noti come Proteobacteria. Inoltre, I ricercatori hanno identificato un composto chiamato acido fenilacetico (PAA), prodotto da batteri nell'intestino e la cui presenza nel sangue era collegata alla NAFLD. I risultati suggeriscono che il PAA potrebbe essere usato come test segnale di allarme precoce per identificare chi ha segni iniziali steatosi epatica.
 
Nella seconda ricerca i ricercatori dell’INSERM di Parigi, in collaborazione con l'Università di Girona e l'Università di Roma Tor Vergata, hanno osservato che nei pazienti obesi il microbioma intestinale perdeva la capacità di metabolizzare correttamente il Triptofano (TRP), un importante aminoacido costituente delle nostre proteine, ma anche base per la produzione di trasmettitori cellulari. Nei pazienti obesi infatti il TRP anziché essere usato per produrre gli indoli, composti anti-infiammatori, veniva utilizzato per produrre la Kynurenina, con effetti negativi sulla tolleranza al glucosio.
 
Massimo Federici del Dipartimento di Medicina dei Sistemi dell’Università di Roma Tor Vergata e Direttore del Centro Aterosclerosi del Policlinico Tor Vergata ha partecipato ad entrambi gli studi e commenta: “Il microbioma intestinale è un centro di coordinamento tra i componenti della dieta, l’ambiente e il nostro organismo. Le alterazioni del microbioma si riflettono in cambiamenti dei prodotti microbici che il nostro organismo assorbe attraverso la parete intestinale con implicazioni importanti per la nostra salute metabolica e il rischio di sviluppare diabete di tipo 2, steatosi epatica e aterosclerosi. Nei pazienti con malattie metaboliche il microbioma perde la capacità di produrre sostanze positive per la salute e genera invece composti con effetti negativi che innescano le malattie. Questi composti negativi possono essere usati come segnali per identificare i soggetti a rischio di malattie come diabete e cardiopatia ischemica, ma dobbiamo ancora capire come sostituire un microbioma malato con uno sano”.

27 giugno 2018
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