Contraccettivi ormonali. Un nuovo studio li ‘assolve’: “Non favoriscono il tumore al seno”
Il lavoro di un gruppo di ricercatori italiani, ginecologi ed oncologi, su oltre 2500 donne con familiarità per tumore al seno ha mostrato che non c’è aumento del rischio. L’analisi retrospettiva di coorte ha rilevato che l’uso di contraccettivi ormonali combinati non aumenta il rischio di tumore al seno, anche in caso di gruppi ad alto rischio e a rischio intermedio.
27 MAR - I contraccettivi ormonali combinati (CHC), cioè quelli che contengono sia un estrogeno sia un progestinico, sono i metodi di contraccezione più utilizzati nel mondo. Spesso sono accusati di favorire la comparsa di tumore al seno ma un nuovo studio, condotto da un team di ricercatori italiani dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, dimostra il contrario. La ricerca ha riguardato una campione di 2527 donne a rischio familiare di tumore al seno, anche portatrici della mutazione BRCA (come l'attrice Angelina Jolie). L’analisi retrospettiva di coorte ha rilevato che l’uso di contraccettivi ormonali combinati non aumenta il rischio di tumore al seno, anche in caso di gruppi ad alto rischio e a rischio intermedio.
L'effetto dei contraccettivi ormonali combinati durante la vita riproduttiva di una donna e il conseguente rischio di tumore al seno è sempre stato un argomento di grande interesse e una questione importante di discussione. Attualmente, i CHC sono i metodi di contraccezione più usati nelle regioni più sviluppate del mondo, con una percentuale media di utilizzo del 18% nelle donne sposate tra i 15 e i 49 anni. E le donne di questa fascia di età sono anche quelle più esposte alla diagnosi di tumore al seno rispetto ad altri tumori che hanno una maggiore incidenza in età post menopausa (70 anni per il cancro del polmone e 68 anni per il cancro del colon-retto).
Posto che gli anticoncezionali ormonali hanno una dimostrata efficacia protettiva verso forme tumorali molto aggressive e di difficile diagnosi e cura, in primis quello dell’ovaio ad alto tasso di mortalità, anche l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rivisto i criteri di idoneità medica per i contraccettivi e, sulla base delle evidenze del 2015, gli esperti hanno deciso che l'uso di CHC non dovrebbe essere limitato nemmeno per le donne con una storia familiare di tumore al seno.
Ginecologi ed oncologi del Centro per lo studio dei tumori eredo-familiari dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria Policlinico di Modena, una delle più grandi cliniche oncologiche italiane istituita per la gestione della prevenzione primaria e secondaria nelle donne ad alto rischio, hanno eseguito una revisione delle cartelle cliniche di 2527 donne che avevano partecipato allo screening di valutazione oncologica (4,5% portatrici di mutazione BRCA, 72,2% ad alto rischio e 23,3% a rischio intermedio di sviluppo di tumore al seno). Il 10,1% di queste pazienti aveva già presentato un tumore al seno prima dei 50 anni.
In tutta questa popolazione si è osservato che il menarca tardivo (la prima mestruazione), dopo i 12 anni, risultava un fattore protettivo, mentre la tarda età della prima gravidanza (oltre 30 anni) erano un fattore di rischio indipendente per tumore al seno. Dall’incrocio di tutte le informazioni e di tutti i dati raccolti, valutando anche gli anni con esposizione diretta ai CHC, l'uso dei CHC non è stato associato ad un aumento del rischio di tumore al seno, anche in presenza di predisposizione genetica o familiare, e indipendentemente dalla durata d’uso del CHC e dalle dosi di estrogeni utilizzati. Anzi, alcuni contraccettivi comunemente usati erano associati a una tendenza, a volte significativa, verso un rischio diminuito di tumore al seno.
27 marzo 2018
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