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Biopsia liquida per prevedere la risposta all’immunoterapia

di Maria Rita Montebelli

Mentre la comunità scientifica (e le autorità regolatorie) dibattono sull’utilità del test del PD-L1 per valutare le possibilità di risposta all’immunoterapia, dall’Università della California di San Diego arriva uno studio che propone un sistema meno invasivo ma altrettanto efficace per valutare se un paziente risponderà o meno alla terapia con inibitori dei checkpoint immunitari, attraverso un semplice prelievo del sangue.

02 OTT - Uno speciale esame del sangue potrebbe aiutare a individuare i pazienti che hanno le maggiori probabilità di risposta all’immunoterapia, la quinta ‘colonna’ della terapia oncologica. Ad annunciarlo sono i ricercatori della University of California San Diego che pubblicano oggi la loro ricerca su Clinical Cancer Research. L’esame in questione, una forma di ‘biopsia liquida’, va a misurare il numero di mutazioni presenti nel DNA tumorale circolante e in questo modo consente di predire la risposta ai cosiddetti ‘checkpoint inibitori’, un trattamento molto efficace su alcuni pazienti ma non in tutti, costoso e non privo di effetti indesiderati.
 
I risultati di questa ricerca dimostrano che il 45% dei portatori di tre o più alterazioni rilevate nel DNA tumorale circolante (ctDNA) rispondono bene all’immunoterapia, mentre nei soggetti che presentano un numero inferiore di mutazioni la percentuale di risposta si aggira sul 15%.
 
“Il trattamento con inibitori dei checkpoint immunitari – commenta Razelle Kurzrock, direttore del Center for Personalized Cancer Therapy presso il UC San Diego Moores Cancer Center – è una strategia molto interessante; al momento viene somministrato in varie forme tumorali ma nella maggior parte dei casi non è possibile prevedere in anticipo se produrrà o meno una risposta. Di fatto, oltre l’80% dei pazienti oncologici finisce con il non rispondere a questi trattamenti.”
 
I pazienti con un maggior numero di mutazioni nel ctDNA mostrano anche una sopravvivenza libera da progressione di malattia più estesa; in particolare, i soggetti che rispondono all’immunoterapia a due mesi e presentano il maggior numero di alterazioni genomiche nel sangue circolante, presentano una risposta mediana di due anni circa. “Se consideriamo che molti di questi pazienti presentano un tumore in fase avanzata, resistente a molte altre terapie – commenta Kurzrock- questo risultato è incredibile”. Il razionale di questo risultato sta nel fatto che, il sistema immunitario, ‘riattivato’ dall’immunoterapia, torna a riconoscere le cellule tumorali e più queste albergano mutazioni del DNA, più sono ‘riconoscibili’.
 
Da questo punto di vista, i tumori più mutati, quelli ritenuti i più gravi in passato, sono quelli che hanno le maggiori chance di risposta all’immunoterapia.
I risultati di questo studio confermano quanto ottenuto da altri studi su biopsie tumorali; il vantaggio naturalmente è di poter replicare il risultato attraverso un semplice prelievo di sangue. Per la biopsia liquida, effettuata su 69 pazienti, è stato utilizzato il test Guardant360 che riesce a valutare oltre 70 alterazioni geniche. “Questa tecnologia – commentano gli autori – consentirà di approcciarsi in maniera diversa all’immunoterapia”. Saranno necessari tuttavia studi su un più vasto numero di pazienti per poter validare la biopsia liquida come test affidabile, non invasivo e predittivo di risposta per l’immunoterapia.
 
Maria Rita Montebelli

02 ottobre 2017
© Riproduzione riservata

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