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Sindrome dell’intestino irritabile. Efficace la dieta ‘a basso FODMAP’

di Maria Rita Montebelli

Un editoriale pubblicato sul British Medical Journal rilancia l’importanza e l’efficacia della dieta a basso contenuto di FODMAP cioè di alimenti contenenti oligosaccaridi, disaccaridi, monosaccaridi e polioli, molto fermentabili e scarsamente assorbibili. E’ una dieta molto restrittiva, difficile da seguire a lungo ma che nelle mani di un bravo dietologo potrebbe permettere di individuare quali gli alimenti ‘no’, da escludere decisamente, e portare invece a reintrodurre gradualmente tutti gli altri

24 LUG - Si chiama sindrome dell’intestino irritabile, colpisce almeno una persona su 10 nella popolazione generale, è una condizione decisamente fastidiosa, quando non invalidante e non ha ancora una terapia.
Di qui l’interesse della proposta di un trattamento basato sulla sola dieta, ripresa da un editoriale  pubblicato sul British Medical Journal, a firma di Benjamin Lebwohl e Peter H.R Green del Celiac Disease Center della Columbia University (New York).
 
Chi è affetto da intestino irritabile presenta tipicamente una serie di disturbi addominali (diarrea, stipsi, meteorismo, dolori addominali) che possono essere scatenati o aggravati dal consumo di alcuni alimenti. Neppure l’eziologia di questa condizione è del tutto chiaro anche se si ipotizza un ruolo dei batteri intestinali. Per questo motivo di recente sono stati proposti per il suo trattamento antibiotici e agenti influenzanti la motilità intestinale, attraverso un’azione sulla secrezione di fluidi o sul sistema nervoso enterico. Ma l’opzione più gradita dai pazienti negli ultimi anni è stata la cosiddetta dieta a basso contenuto di FODMAP, cioè di alimenti contenenti oligosaccaridi, disaccaridi, monosaccaridi e polioli; si tratta di cibi altamente fermentabili e poco assorbibili che portano ad un aumento della flora batterica ileo-colica. Appartengono a questa categoria gli alimenti contenenti fruttosio (frutta e dolcificanti), lattosio, fruttani (prodotti a base di frumento), galatto-oligosaccaridi (legumi) e polioli (come xilitolo e mannitolo presenti nella frutta e nei dolcificanti artificiali).
 
Per l’effetto dei FODMAP sul microbiota, Gibson e Shepherd sono arrivati a proporli in passato quale possibiletrigger di malattie infiammatorie intestinali (Crohn e RCU) ed è stato proposto di utilizzare la dieta a basso contenuto di FODMAP nel trattamento di queste condizioni, finora però senza grandi risultati. Più interessanti invece sono le prove che si stanno accumulando a favore di questa dieta nella sindrome dell’intestino irritabile. Una metanalisi su sei trial randomizzati riguardanti la dieta a basso contenuto di FODMAP ha infatti indicato una riduzione significativa (-56%) della gravità dei sintomi in chi la segue.
 
Un’altra patologia nella quale la dieta a basso FODMAP potrebbe avere un razionale d’impiego è l’intolleranza al glutine ‘senza celiachia’. E’ anche questa una sindrome dalla patogenesi incerta; chi ne soffre riferisce sintomi quali meteorismo, dolori addominali e alterazioni dell’alvo ma a volte anchefatigue e cefalea dopo aver consumato cibi ricchi di glutine, pur non essendo sicuramente celiaci. In questi soggetti la dieta a basso contenuto di FODMAP sembra molto efficace.
Gli autori dell’editoriale tendono però a spegnere un po’ l’entusiasmo sull’approccio dietetico al trattamento della sindrome dell’ intestino irritabile e all’inteolleranza al glutine perché non è ancora noto se questa dieta mantenga la sua efficacia nel lungo termine; inoltre, essendo una dieta molto restrittiva, la compliance del paziente potrebbe non durare a lungo. Infine, anche in chi la dovesse adottare in maniera ferrea sul lungo periodo, non è noto se questo sia in grado di modificare il microbiota ileo-colico in maniera tale da portare ad un controllo durevole dei sintomi. Sul lungo periodo inoltre, una dieta del genere potrebbe richiedere una supplementazione di minerali e vitamine.
 
Gli autori ritengono che probabilmente non tutti i FODMAP siano responsabili dei sintomi dell’intestino irritabile in tutti i pazienti; studi futuri dovrebbero dunque appurare se un approccio dietetico meno restrittivo possa avere comunque valore. Un breath test al fruttosio positivo ad esempio potrebbe consentire di restringere la lista nera degli alimenti da evitare a quelli contenenti fruttosio, piuttosto che includere di default tutti i FODMAP. Di certo, spetta ad un dietologo esperto ‘accompagnare’ il paziente ad adottare una dieta FODMAP e a reintrodurre via via in maniera controllata i singoli alimenti.
Infine, ricordano gli autori, la sindrome dell’intestino irritabile potrebbe consistere in un gruppo molto eterogeneo di condizioni, che rispondono in maniera diversa ad una serie di strategie dietetiche, piuttosto che ad una singola dieta ‘a taglia unica’.
 
Maria Rita Montebelli

24 luglio 2016
© Riproduzione riservata

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