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L’insostenibile costo dei farmaci, innovativi e non. Le ricette made in Usa per affrontare il problema

di Maria Rita Montebelli

Contenere la spesa dei farmaci, per rendere l’innovazione, ma anche i vecchi farmaci, disponibili a molti se non a tutti. Negli Usa ci si sta provando, sensibilizzando i medici prescrittori alla valutazione del costo-efficacia ma anche chiedendo per legge alle aziende di rendere trasparenti i loro investimenti in ricerca e sviluppo, così da poter valutare se il prezzo richiesto per un determinato farmaco sia ragionevole o gonfiato in maniera immotivata

19 GIU - Il costo dei farmaci innovativi è un argomento spinoso e controverso in tutto il mondo. Da una parte l’esigenza etica di renderli disponibili a quanti ne hanno bisogno; dall’altra la questione della sostenibilità, a fronte di budget sanitari non adeguati a reggere l’impatto di queste spese.
Gli Stati Uniti stanno cercando delle possibili soluzioni, certamente non facili, ma di certo interessanti come spunto di riflessione. E ne parla questa settimana sul New England Journal of Medicine Ameet Sarpatwari, epidemiologo della Divisione di Farmacoepidemiologia e Farmacoeconomia del Brigham and Women’s Hospital di Boston.
 
L’idea di fondo è ispirata alla trasparenza. E infatti, la richiesta che alcuni Stati americani stanno avanzando alle aziende farmaceutiche, è quella di rendere disponibili i dati sui loro investimenti in ricerca e sviluppo (R&D). Una disclosure che in qualche caso di estende anche alla richiesta dei dati sui profitti e sui prezzi applicati ad uno stesso farmaco nei vari paesi.
 
“Negli ultimi due anni in particolare – afferma Sarpatwari – il prezzo di alcuni farmaci è andato aumentando in maniera considerevole, portando a far lievitare la spesa dei farmaci su prescrizione fino al 20%; questo ha riguardato anche i farmaci generici, in qualche caso in maniera eclatante, ma il problema nella stragrande maggioranza dei casi è posto dai farmaci brand, in particolare da quelli innovativi, quali il sofosbuvir (Sovaldi), ma anche da altri di impiego comune come la rosuvastatina (Crestor).
 
Tra i casi ‘esemplari’ degli ultimi mesi relativi a farmaci dai prezzi esagerati c’è quello della pirimetamina (Daraprim), un generico utilizzato per il trattamento di malattie protozoarie nei soggetti con infezione da HIV, acquisito dalla Turing Pharmaceuticals che ha portato il suo prezzo da 13,50 dollari a compressa a 750 dollari a compressa nell’arco di una notte. C’è poi la questione dei nuovi farmaci anti-epatite C, che stanno mettendo in crisi le casse della sanità di tutti i paesi. Ma, al di là di alcuni casi estremi, anche molti farmaci brand di uso ormai comune hanno subito dei rincari non facilmente comprensibili. Come nel caso dell’ l’imatinib (Gleevec), che nel 2001 costava 26.000 dollari per anno di trattamento e che nel 2016 è arrivato a costare 120.000 dollari l’anno.
 
 Il sistema americano è tale per cui gran parte dell’onere per questi farmaci innovativi è spesso a carico diretto dei cittadini (out of pocket). E una recente ricerca evidenzia che almeno un americano su quattro negli ultimi anni non si è potuto permettere di affrontare la spesa per l’acquisto di questi farmaci, con ricadute prevedibilmente pesanti.
 
I payer americani dunque vogliono capire perché il prezzo di questi farmaci è aumentato così tanto negli ultimi anni e di fronte alla paralisi dello stato federale, alcuni singoli stati si sono ingegnati, ognuno a modo suo, a trovare risposte a questa domanda. Così, alcuni stati hanno ristretto i requisiti di elegibilità per alcuni farmaci ad elevato costo. Nel caso del sofosbuvir ad esempio la maggior parte dei programmi Medicaid dei vari stati ha limitato la copertura ai pazienti che mostrano già un certo grado di danno epatico. Altri stati pretendono la dimostrazione che i pazienti ai quali vengono prescritti questi farmaci si astengano da droghe e alcol. E questo ha scatenato un putiferio da parte di chi ritiene che queste restrizioni siano discriminatorie, senza peraltro essere evidence-based. Altri stati ancora hanno designato degli esperti per valutare le più recenti evidenze relative ad una serie di farmaci ed educato quindi i prescrittori a temi quali efficacia relativa dei farmaci, safety e costo-efficacia delle loro scelte terapeutiche.
 
Le industrie, dal canto loro, hanno sempre giustificato gli elevati costi di alcuni farmaci con l’argomento dei notevoli investimenti in R&D, derivanti non solo dai farmaci che arrivano sul mercato, ma anche da tutti quelli che si perdono lungo la filiera delle sperimentazioni cliniche. In realtà – fa notare l’autore – recenti studi hanno evidenziato che, nella maggior parte dei casi, appena il 15% dei profitti delle aziende viene reinvestito in R&D. Decisamente meno di quanto viene investito nel marketing.
 
Le leggi sulla trasparenza. Ma molti politici ritengono che questo non possa essere accettato come spiegazione ‘a scatola chiusa’ ed hanno deciso di vederci chiaro, chiedendo alle industrie una disclosure sugli investimenti in R&D. E sono già 10 gli stati americani (California, Colorado, New York, Oregon, Pennsylvania, Massachusetts, Tennessee, North Carolina, Vermont, Virginia) che hanno introdotto o presentato proposte di legge in tal senso. La maggior parte di queste richieste di ‘trasparenza’ riguardano farmaci che costano oltre 10.000 dollari per anno o per ciclo di trattamento. Alcuni stati si sono addirittura spinti a richiedere una disclosure sui profitti generati da alcuni farmaci, sul prezzo applicato in altre nazioni e sugli sconti applicati all’interno dei singoli stati alle diverse categorie di payers.
Le reazioni dell’industria non sono state finora improntate alla condiscendenza, le azioni di lobby si sono moltiplicate e di fatto ad oggi solo il Vermont ha tagliato il traguardo. La sua legge di trasparenza è stata infatti approvata il 3 giugno 2016.
 
Non sorprende che le aziende farmaceutiche non gradiscano molto queste ‘intrusioni’ nei loro conti di R&D e la loro linee di difesa si basa principalmente sul fatto che questi ‘bill’ sulla trasparenza non prendono in considerazione gli elevati costi che le aziende devono sostenere anche per la R&D di quei farmaci che non arriveranno mai per varie ragioni sul mercato. Ma anche in questo caso tutto ruota intorno alla trasparenza.
 
“Naturalmente – afferma Sarpatwari - potrebbero essere introdotti dei correttivi che tengano conto delle varie linee di ricerca e dei relativi costi sostenuti dalle aziende, per le molecole non andate a buon fine. Se tutte queste spese fossero rese disponibili , potremmo calcolare dei correttivi per includere questi costi ‘nascosti’, nel calcolo di un ragionevole costo dei farmaci”. Inoltre, una conoscenza più approfondita dei costi di sviluppo dei farmaci porterebbe probabilmente ad istituire degli incentivi per guidare l’innovazione verso aree importanti per la salute pubblica. Quali ad esempio la ricerca di nuove classi di antibiotici.
 
Ma anche così il problema non è risolto. E c’è chi solleva il dubbio se sia etico che un’azienda, per rientrare delle perdite subite ad esempio dal fallimento dello sviluppo di un farmaco anti-diabetico, vada a ricaricarne i costi su un farmaco oncologico approdato invece sul mercato. Nella migliore delle ipotesi bisognerebbe chiedersi fino a che punto questo sia corretto e se queste operazioni di ‘recupero’ non vadano invece confinate all’interno dello stesso filone di ricerca. Ma definire cosa sia ‘giusto’ o ‘accettabile’ non è certo un processo facile e ancor meno condivisibile da tutte le parti.
 
Gli scenari futuri. Una volta ottenute ( cosa né facile, né scontata) tutte le informazioni sui costi R&D di un determinato farmaco e in generale dell’investimento globale fatto da un’azienda in questo settore, anche per farmaci non arrivati sul mercato, resta da definire chi dovrebbe essere incaricato di elaborare tutti i dati forniti dalle aziende. È ipotizzabile che ad occuparsene dovrebbe essere un’agenzia federale e non i singoli stati. Il rapporto relativo all’analisi e alle motivazioni relative all’aumento di prezzo dei vecchi farmaci e agli elevati prezzi di ingresso sul mercato dei farmaci innovativi dovrebbe idealmente essere reso pubblico, come anche la metodologia da scegliere per valutare se il prezzo applicato dall’azienda per una certa molecola sia giustificato o meno. Ma per questo sarà necessario superare prima una serie di questioni politiche e di policy.
 
Come contenere insomma il prezzo dei farmaci?“Ritengo – afferma Sarpatwari - che queste leggi sulla trasparenza potrebbe aiutare a capire meglio i processi di R&D di un’azienda farmaceutica e i vari costi implicati”. Questo potrebbe portare ad una riduzione dei prezzi nei casi in cui il prezzo calcolato fosse assolutamente non in linea con quello proposto dall’azienda produttrice. Ma tutto ciò porta naturalmente alla questione più ampia di come determinare il pricing dei farmaci. Dovrebbe essere solo una misura di quanto utile quella molecola dal punto di vista clinico (valore costo-efficacia)? La maggior parte dei farmaco-economisti probabilmente sarebbero pronti a rispondere che questa è l’essenza del problema. “Ma le leggi sulla trasparenza – prosegue Sarpatwari - potrebbero fornire ulteriori elementi di giudizio utili a comprendere in quali sforzi di R&D si impegni una determinata azienda; e in molti casi potrebbero forse portare anche ad un contenimento della spesa per quel farmaco”. Questi due elementi, definire l’utilità clinica di un farmaco e risalire al suo costo di R&D, potrebbero fornire ai payer degli strumenti per una migliore negoziazione del prezzo di quel farmaco o consentire loro di abbandonare  il tavolo delle trattative, qualora il prezzo richiesto per quel farmaco fosse palesemente non in linea con quanto atteso. Avere in mano tutti gli elementi necessari per definire il vero valore di un farmaco, rappresenta insomma secondo l’autore la conditio sine qua non per arrivare ad un contenimento della spesa.
 
Maria Rita Montebelli

19 giugno 2016
© Riproduzione riservata

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