Alzheimer e demenze. Ema pubblica le nuove linee guida per lo sviluppo di nuovi farmaci
di Valentina Mantua
La certezza della diagnosi, un modello che renda conto del tempo di progressione della malattia e la possibilità di misurare in modo affidabile i risultati di uno studio clinico, anche in pazienti molto lievi, sono tra i principali quesiti regolatori ai quali le nuove linee guida europee, scritte anche grazie al contributo significativo dell’Italia, tentano di dare una risposta. LE LINEE GUIDA
08 FEB - Quando un’azienda farmaceutica decide di investire nella ricerca e sviluppo di nuove terapie farmacologiche per una determinata malattia sa di dover mettere in conto un importante rischio di fallimento. Mediamente nel 96% dei casi gli investimenti non portano a nulla e la percentuale di successo se si vuole sviluppare un nuovo antibiotico sale al 4,6% mentre, se invece si vuole scommettere sull’Alzheimer, questa probabilità si riduce di ben 8 volte a circa lo 0,5% (Calcoen et al., 2015).
Le demenze sono tra le nuove epidemie del XXI secolo. Secondo i dati del World Alzheimer Report 2015, circa 40 milioni di persone al mondo sono affette da una qualche forma di demenza e ogni 3 secondi viene fatta una nuova diagnosi; il costo dell’assistenza ha raggiunto l’1% del PIL mondiale dunque, senza dubbio, le demenze rappresentano una priorità per i sistemi sanitari mondiali.
Eppure nonostante questa emergenza dilagante gli inibitori delle colinesterasi e la memantina sono ancora gli unici farmaci in commercioin grado di alleviare, probabilmente in modo transitorio, alcuni sintomi ma dal 2002, l’anno nel quale è stata approvata in Europa l’ultima molecola, non sono arrivati nuovi farmaci. Non esistendo ancora una terapia in grado di prevenire il processo neurodegenerativo della demenza, la ricerca si è concentrata sulla malattia di Alzheimer, la forma più frequente tra le demenze, per la quale sono almeno note le alterazioni neuropatologiche cerebrali (placche amiloidi e grovigli Tau).
I primi tentativi di sviluppo di vaccini (immunizzazione attiva) o anticorpi monoclonali (immunizzazione passiva) contro alcuni frammenti della proteina amiloide, sono purtroppo fallitie alcuni ricercatori ritengono che, oltre a problemi legati alla natura strutturale delle molecole, una delle cause dei fallimenti possa essere l’impiego di terapie nelle fasi troppo tardive della malattia quando cioè il processo degenerativo è già in fase avanzata. Per questi motivi, la ricerca clinica ha generato molti dati a sostegno dell’utilizzo di biomarcatori in grado di permettere la visualizzazione delle placche amiloidi
in vivo allo scopo di fare diagnosi precoce. L’uso dei biomarcatori ha dimostrato che il processo di malattia inizia nel sistema nervoso centrale decine di anni prima della comparsa dei sintomi.
Oltre alle tecniche di
neuroimaging con radio farmaci (PET), anche lo studio del volume dell’ippocampo mediante risonanza magnetica o l’analisi del liquido cefalorachidiano alla ricerca dei livelli delle proteine amiloide e tau, consentono di fare diagnosi precoce con buona approssimazione.
Approssimazione appunto, ed è proprio qui che è apparso fondamentale il ruolo delle agenzie regolatorie. I pazienti sui quali sono sperimentati questi trattamenti cosiddetti
modificatori del decorso di malattia, sono pazienti identificati per la presenza di un biomarcatore, ma con sintomi ancora molto lievi, a volte solo un iniziale disturbo di memoria o anche nessun sintomo.
L’assenza di un quadro clinico conclamato rende la diagnosi più incerta. Le agenzie regolatorie hanno provato a integrare le conoscenze scientifiche più aggiornate e le esigenze di sviluppo dei nuovi farmaci, nella corretta identificazione della popolazione clinica che più possa beneficiare di un nuovo trattamento. Se da un lato la diagnosi precoce consente di intervenire tempestivamente nel processo degenerativo, dall’altro l’incertezza della diagnosi fa sì che si possano incorporare negli studi registrativi pazienti con una progressione di malattia così lenta da non essere misurabile nel tempo di una sperimentazione clinica (18 mesi - 2 anni).
La certezza della diagnosi, un modello che renda conto del tempo di progressione della malattia e la possibilità di misurare in modo affidabile i risultati di uno studio clinico, anche in pazienti molto lievi, sono tra i principali quesiti regolatoriai quali le nuove linee guida europee, scritte anche grazie al contributo significativo dell’Italia, tentano di dare una risposta. La sfida culturale è stata quella di interpretare il modello fisiopatologico della malattia in modo che la guida regolatoria fosse effettivamente basata sulle evidenze scientifiche e sufficientemente flessibile da consentire un adattamento dei processi alle nuove conoscenze, in uno scenario in continua evoluzione.
La demenza di Alzheimer è, infatti, una malattia multifattoriale per cui, sebbene sia nota la presenza di placche amiliodi e grovigli tau a valle della cascata di eventi che le ha prodotte, il meccanismo fisiopatologico che ne provoca la formazione non è noto, o lo è solo parzialmente. In particolare, sembrerebbe che nella variante sporadica della malattia di Alzheimer siano numerosi i fattori di rischio (alimentazione, stili di vita, co-morbidità, genetica) e i percorsi fisiologici (infiammazione, insulino-resistenza, cascata amiloide) che concorrono alla comparsa del quadro sintomatologico e neuropatologico.
È probabile dunque che un intervento farmacologico precocissimo sulle prime fasi della cascata amiloide sia un approccio corretto, se effettivamente i risultati dimostreranno che l’accumulo di placche viene rallentato, ma forse non è l’unico o forse, come suggerisce lo
studio FINGER l’intervento su multipli fattori di rischio contemporaneamente potrebbe essere più efficace. Le linee guida hanno affrontato anche il delicato terreno della prevenzione, sul quale i dati sono ancora poco robusti, ma che ha stimolato il settore della ricerca farmaceutica verso nuovi orizzonti, quello dei
big data e dei modelli statistici bayesiani di probabilità.
Le agenzie regolatorie come l’AIFA hanno accettato le molteplici sfide del settore, ma questo è stato possibile solo a fronte di un’ampia convergenza di tutti gli
stakeholder del sistema su obiettivi comuni. Aziende farmaceutiche, agenzie regolatorie di tutto il mondo,
payers, OCSE, WHO e anche alcuni Governi negli ultimi due anni hanno trovato molte occasioni di collaborazione: ricordiamo il
Workshop organizzato dall’EMA il 24-25 Novembre 2014 o la
Integrated Initiative sostenuta dal Governo britannico, due esempi significativi della volontà condivisa di raggiungere una visione comune e di mettere a disposizione mezzi e conoscenza per raggiungere l’obiettivo di avere il prima possibile in commercio nuove terapie efficaci e sicure per la demenza.
Valentina Mantua
Alternate member Scientific Advice Working Party dell’Ema
Fonte: Focus pubblicato oggi sul sito web dell’Aifa
08 febbraio 2016
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