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L’effetto placebo è scritto nel DNA

di Maria Rita Montebelli

Un gruppo di ricercatori di Harvard fa il punto sull’effetto placebo. Fino a ieri considerato frutto della diversa ‘ suggestionabilità’ dei pazienti, l’effetto placebo appare sempre invece più legato alla variabilità genetica delle vie neurotrasmettitoriali del cervello. Da riscrivere gli studi clinici randomizzati controllati versus placebo?

15 APR - I cosiddetti placebo, una sorta di ‘pagherò’ della salute sotto forma di pillole colorate, contenenti sostanze non farmacologicamente attive, sono stati la panacea della terapia per secoli, quando ancora non si disponeva di farmaci veri e propri.  E ancor oggi il placebo è un protagonista imprescindibile degli studi clinici controllati – appunto versus placebo.
 
Sul cosiddetto effetto placebo si discute da decenni e sull’argomento c’è stato tutto un fiorire di teorie. Nessuno però era  ancora mai riuscito a provare scientificamente perché in alcune persone questo effetto sia particolarmente pronunciato e in altre praticamente assente. Fino a qualche anno fa.
 
L’avvento della genomica ha consentito infatti di evidenziare che la risposta al placebo è fortemente influenzata dall’assetto genetico di un individuo. Una scoperta questa che potrebbe avere forti ripercussioni non solo nel trattamento dei pazienti, ma anche sullo sviluppo di nuove terapie.
 
Se da una parte è infatti  ipotizzabile sfruttare l’effetto placebo per personalizzare un trattamento, dall’altra ci si chiede quale impatto possa avere l’effetto placebo sulle interazioni farmacologiche e naturalmente ci si interroga sulle sue ricadute nel disegno dei trial clinici randomizzati controllati versus placebo.
 
Di tutto ciò si discute in un’interessante review firmata dai ricercatori del Program in Placebo Studies (PiPS) presso il Beth Israel Deaconess Medical Center (BIDMC) e del  Dipartimento di Medicina del Brigham and Women's Hospital (BWH) di Boston (USA), pubblicata online su Trends in Molecular Medicine.
 
Nell’articolo si introduce il concetto di ‘placeboma’ a designare appunto una rete di geni che potrebbero impattare in modo importante sul disegno dei futuri trial clinici e sulla pratica clinica quotidiana, per quanto attiene al campo delle terapie farmaologiche. Il filo conduttore di questi ragionamenti è che l’effetto placebo sembra rivestire un ruolo ben più importante di quanto comunemente ritenuto.
 
“Il sequenziamento genetico – rivela Kathryn T. Hall, Divisione di Medicina Generale ePrimary Care presso la BIDMC e Harvard Medical School – sta rivelando che il cosiddetto effetto placebo è sostenuto da un fenotipo complesso del quale stiamo pian piano apprezzando la fisiologia. Lo studio degli effetti genomici sulla risposta placebo - quello che abbiamo ribattezzato il ‘placeboma’-  è appena agli albori. Ma abbiamo già ampie prove che alcune varianti genetiche, relative alle vie dei neurotrasmettitori cerebrali, sono in grado di modificare l’effetto placebo. Di conseguenza, le risposte placebo si stanno rivelando sempre più come una serie di reazioni biologiche che devono essere caratterizzate in maniera rigorosa per poter sviluppare in maniera efficiente dei nuovi farmaci e per trattare in maniera ottimale i pazienti”.
 
Il ruolo dei neurotrasmettitori. L’effetto placebo si manifesta quando un paziente mostra un miglioramento dopo assunzione di un trattamento non contenente principi attivi. In passato i ricercatori hanno utilizzato strumenti comportamentali per tentare di prevedere quali pazienti avrebbero risposto al placebo. Ma nel corso dell’ultima decade, lo sviluppo di sofisticate tecniche di neuroimaging ha consentito di apprezzare l’attivazione di alcuni pathway di neurotrasmettitori cerebrali, in risposta all’assunzione di un placebo.
“I neurotrasmettitori (messaggeri chimici ad azione eccitante o inibitoria sulla funzione nervosa) giocano un ruolo chiave nei meccanismi di reward e del dolore– spiega la Hall -  per questo abbiamo ipotizzato che le varianti dei geni che codificano per queste proteine fossero in grado di influenzare anche le risposte placebo”.
E nel 2012, la Hall ha individuato nella COMT (catechol-O-methyltransferase) il primo biomarcatore placebo, scoprendo che le varianti genetiche della COMT, che influenzano i livelli cerebrali di dopamina, sono in grado di determinare l’importanza della risposta al placebo nel singolo individuo.
Oltre al gene COMT, anche altri pathway neurotrasmettitori ali sembrano implicati nella risposta placebo. E’ il caso delle vie serotoninergiche, degli endocannabinoidi e degli oppiodi. Questo suggerisce l’esistenza del ‘placeboma’, di una rete cioè di geni implicati nell’effetto placebo.
 
Interazioni farmaco-placebo. Una volta appurato che le vie neurotrasmettitoriali sono implicate nell’effetto placebo,  quali conseguenze potrebbe avere il fatto che risposta placebo e risposta al farmaco attivo condividano le stesse vie cerebrali? “Stiamo scoprendo – spiega Ted Kaptchuk, Direttore del PiPS presso il BIDMC e Professore di Medicina ad Harvard - che il placebo non è l’unico componente dell’effetto placebo. Le vie neurotrasmettitori ali, che possono essere modificate da un diverso assetto genetico, sono ‘percorse’ sia dal placebo che dai farmaci. Questo suggerisce che un farmaco potrebbe influenzare un effetto placebo e che il placebo potrebbe modificare la risposta ad un trattamento attivo”. Potrebbero venirsi a creare cioè interazioni farmaco attivo-placebo.
 
Braccio placebo negli studi clinici. La possibile esistenza di un’interazione placebo-farmaco attivo, come risultato di una variabilità genetica suggerisce che potrebbe essere necessario riconsiderare l’interpretazione dei trial clinici controllati versus placebo. “Un importante passo avanti nel descrivere il placeboma potrebbe essere quello di includere un controllo ‘non-trattamento’ nei trial clinici randomizzati controllati con placebo. Questo approccio potrebbe rivelarsi costo-efficace e consentire di far scoprire un più ampio numero di geni implicati nell’effetto placebo.
Il campo della farmacogenomica  e i nostri sistemi sanitari, focalizzati sulla medicina di precisione, richiedono entrambi il giusto trattamento, al posto giusto e al momento giusto. Incorporare il placeboma in questa strategia complessiva ci aiuterebbe ad effettuare trattamenti  all'insegna della costo-efficacia e a migliorare la cura dei pazienti. La scoperta del placeboma deve portarci da oggi a considerare il placebo da una seria prospettiva biologica”.
 
Maria Rita Montebelli

15 aprile 2015
© Riproduzione riservata

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