Il ruolo del farmacista ospedaliero si sta evolvendo molto rapidamente all’interno del processo di rinnovamento della sanità italiana. In particolar modo l’emergenza pandemica ha fatto sì che questa figura professionale svolgesse, oltre all’attività di tipo prevalentemente gestionale, quella di consulente multidisciplinare che ha aiutato a migliorare la qualità delle cure in un contesto caratterizzato da grande incertezza e pressione. Questo ha aperto la strada a quella che può diventare una diversa e nuova interazione sia con gli specialisti che con il paziente complesso, in un’ottica di continuità assistenziale dall’ospedale al territorio. La collaborazione con lo specialista, infatti, permette al farmacista ospedaliero di erogare le sue competenze cliniche nel “profilare” il paziente in vista delle terapie da prescrivergli, del monitoraggio delle stesse e della loro eventuale revisione. Per il paziente invece il farmacista ospedaliero può diventare un riferimento non “mediato” da altre professionalità, che può “educare” quest’ultimo ad una corretta compliance e, soprattutto, può ascoltarlo. La mancata aderenza alle terapie, infatti, è una delle cause principali del peggioramento dei pazienti con pesanti ripercussioni sulla loro salute. La presenza costante e rassicurante del farmacista ospedaliero invece può evitarne lo smarrimento e garantire un maggior rispetto della compliance.
Questi sono i principali temi emersi dal Simposio “Il nuovo modello di farmacia clinica: processi e strumenti per un’interazione virtuosa e di valore tra clinico, paziente e farmacista ospedaliero”, organizzato con il contributo incondizionato di Alfasigma nel corso del XLV Congresso Nazionale SIFO a Napoli alla Mostra d’Oltremare.
Un contesto in cui questo modello innovativo è già stato sviluppato è rappresentato dalla UOC della Farmacia dell’Azienda Ospedale Università di Padova, diretta da Francesca Venturini. La struttura infatti offre prestazioni di ricognizione e riconciliazione farmacologica, di revisione e patient education. L’esperta ha raccontato così l’evoluzione del farmacista ospedaliero verso una sempre maggior integrazione tra il ruolo gestionale e quello clinico: “I cardini della nostra attività sono la parte gestionale dei beni sanitari, la parte galenica che ci caratterizza e che non dobbiamo mai abbandonare, la ricerca, la vigilanza e la continuità assistenziale. Quello che con la revisione recente del nostro organigramma abbiamo voluto innovare è stata la parte relativa alla definizione di un’area che è quella della farmacia clinica”.
Secondo la definizione della SiFaCT, la farmacia clinica è un settore della professione nel quale il farmacista fornisce assistenza diretta al paziente, con l’obiettivo di ottimizzare la terapia e favorire la salute, il benessere e la prevenzione delle malattie. Il farmacista clinico è un professionista esperto in specifiche aree terapeutiche, che condivide con gli altri professionisti sanitari la responsabilità finale dell’assistenza al paziente. Per fare questo possiede una conoscenza clinica e segue un percorso professionale specifico, documenta la sua attività e promuove la generazione di nuove conoscenze nell’ambito di competenza, come conferma la Dottoressa Venturini: “La nostra attività è volta a migliorare il profilo farmacologico del paziente, la compliance e quindi gli esiti, con una diminuzione degli effetti collaterali. Tutto questo è possibile grazie ad un lavoro interdisciplinare. Per questo la parte dell’organigramma che ci riguarda è dedicata ad aree specifiche cliniche perché bisogna essere formati in una specifica area clinica, cronica o acuta. Nella nostra esperienza abbiamo un farmacista clinico in infettivologia, uno in pediatria, uno in chirurgia e uno in oncoematologia”.
La Dottoressa Venturini si è anche soffermata sull’Ambulatorio di Riconciliazione Farmacologica: ”Il modello Ambulatorio sviluppato a Padova vede il farmacista erogare prestazioni di ricognizione e riconciliazione, di revisione e di educazione al paziente sia in fase acuta che cronica. Quando il clinico ha bisogno, prenota una visita ambulatoriale che noi possiamo erogare sia con il paziente in presenza che attraverso una “televisita”; l’esito della nostra analisi o della nostra interazione è documentato in cartella clinica ed è disponibile per il medico di riferimento che può consultarlo”. Questo modello, oltre ad essere molto innovativo sta dando esiti soddisfacenti: “I risultati del primo anno di attività ci dicono che abbiamo più di mille prestazioni eseguite con una buona rispondenza in termini di accettazione dei nostri suggerimenti; inoltre emerge un’ottima aderenza alle terapie con i farmaci che stiamo monitorando”.
Teresa Petrangolini, Direttore del Patient Advocacy LAB Altems presso l’Università del Sacro Cuore sottolinea l’importanza dell’affiancamento del farmacista ospedaliero al paziente: “Nella maggior parte dei casi il paziente non ha rapporti diretti con il farmacista ospedaliero; un contatto non mediato rappresenterebbe una rivoluzione perché queste persone subiscono un impatto “importante” con il farmaco e necessitano di un affiancamento, che non è detto che debba essere necessariamente quello del medico”. L’esperta conclude poi con un auspicio: “Sarebbe interessante mettere intorno ad un tavolo le associazioni che si occupano dei problemi dei pazienti per spiegare quanto è importante far sì che non ci siano solo progetti-pilota ma una reale implementazione in vari ambiti. Il paziente ne potrebbe solo beneficiare”.
Il Prof. Francesco Ciccia, Ordinario di Reumatologia presso l’Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli ha sottolineato l’importanza della riconciliazione farmacologica - per esempio - nel paziente reumatico che spesso è affetto da varie comorbidità. Inoltre, si è soffermato sul problema della mancata misurazione dei risultati derivanti dall’aderenza alla terapia: “Nella cura dell’artrite reumatoide il treat to target è fondamentale. Si tratta di un ‘contratto’ che stipuliamo con il paziente che deve essere monitorato ogni tre mesi, al termine dei quali si misura l’attività di malattia per modificare eventualmente la terapia se non è stato raggiunto il target previsto. Il nostro obiettivo infatti è la bassa attività di malattia o la sua remissione, ma in 20 minuti di visita è complicato spiegare cosa è il treat to target, l’area di intervento, gli obiettivi ecc. E, soprattutto, non abbiamo una misura corretta dell’aderenza alla terapia che è poi il principale fattore che limita l’approccio al treat to target. Molti dei nostri pazienti, infatti, non seguono una terapia farmacologica adeguata perché la autogestiscono. Per cui la presenza di un ambulatorio con un farmacista clinico che ci affianchi determinerebbe un impatto sostanziale sull’attività di malattia. Il paziente con artrite non trattato infatti ha una mortalità paragonabile a quella della malattia coronarica dei tre vasi; quindi, bisogna intervenire adeguatamente e un’interazione con il farmacista clinico in reumatologia andrebbe implementata”.
Per Marianna Cozzolino, Dirigente Farmacista presso l’A.O.R.N. Cardarelli, il farmacista ospedaliero all’interno di un reparto, oltre ad interagire con i clinici potrebbe supportare il paziente indirizzandolo correttamente: “Come all’uscita da un ambulatorio medico il paziente chiede chiarimenti al suo farmacista di fiducia sulle prescrizioni ricevute, così il farmacista ospedaliero potrebbe svolgere lo stesso ruolo dopo un ricovero”. La dottoressa Cozzolino sottolinea anche come un grosso limite sia rappresentato dalla mancanza di personale dedicato: “In Campania varie realtà hanno il farmacista clinico in reparto: l’Azienda Ospedaliera di Caserta, l’Azienda Ospedaliera dei Colli e il Cardarelli. Ma al momento queste figure sono limitate ai reparti di oncologia, dove il supporto emotivo al paziente è fondamentale. Ma sarebbe importante averlo anche in altri reparti, per esempio in pediatria, gastroenterologia, reumatologia o al pronto soccorso, soprattutto quando arrivano pazienti complessi. Inoltre, occorrerebbe anche uno sforzo verso una regolamentazione perché questi colleghi presenti in reparto purtroppo sono legati a progetti che hanno un inizio e fine, e quindi viene a mancare il presupposto dell’interazione continuativa, che invece è fondamentale”.