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Long Covid e problemi di equilibrio. Speranze di cura da uno studio internazionale a cui partecipa anche l’Italia


La ricercatrice Arianna Di Stadio, che lavora sul progetto di ricerca con la Fondazione Santa Lucia Irccs, spiega: “Si deve agire sulla neuroinfiammazione. I risultati preliminari dello studio multi-centrico dimostrano che la neuroriabilitazione può aiutare a risolvere il problema, ancor meglio se associata a una molecola anti neuroinfiammazione”.

11 LUG - Speranze nella cura dei problemi di equilibrio dovuti al post Covid. I primi risultati incoraggianti relativi ad un trattamento arrivano dallo studio internazionale che, per l’Italia, vede capofila il Santa Lucia IRCCS di Roma (ospedale che ha vinto recentemente un PNRR con un progetto sulla Postural Persistent Perceptual Dizziness-PPPD).

“Stiamo studiando – spiega la professoressa Arianna di Stadio, docente all’Università di Catania e ricercatrice all’UCL Queen Square Neurology di Londra e della Fondazione Santa Lucia IRCCS - gli effetti della neuroinfiammazione sui disturbi dell’equilibrio nel post Covid e stiamo conducendo uno studio internazionale che sta coinvolgendo Italia, UK e USA per capire come l’infezione da COVID 19 possa essere responsabile dei disturbi cronici dell’equilibrio, in particolare della Postural Persistent Perceptual Dizziness (PPPD). Con questo termine, semplificato in 3PD, definiamo una condizione di disturbo dell’equilibrio persistente generalmente negativo a tutti i test diagnostici dell’equilibrio, che induce sensazione di instabilità nel paziente con un'importante limitazione della normale attività quotidiana. Il disturbo è legato ad un deficit di compenso centrale dopo uno o più episodi di vertigini, in genere vertigini parossistiche benigne (quelle causate dallo spostamento anomalo degli otoliti)”.

“L’origine della mancanza di compenso in seguito alla vertigine è oggetto di ampio studio e la neuroinfiammazione è certamente implicata nel processo di non recupero - aggiunge la neuroscienziata - I risultati preliminari dello studio multi-centrico che stiamo conducendo dimostrano che la neuroriabilitazione può aiutare a risolvere il problema, ancor meglio se associata a una molecola anti neuroinfiammazione. Poiché abbiamo esperienza nell’utilizzo con successo della PEALUT ultra micronizzata per il trattamento della brain fog ed i disturbi olfattivi, lo stiamo testando anche nella PPPD”.

“Attualmente i dati preliminari estratti da 17 pazienti, dimostrano che in 2 di loro (11.8%) l’infezione da COVID-19 ha causato la PPPD, mentre in 6 casi (35.3%) l’infezione ha peggiorato i sintomi. Si può quindi ipotizzare che in 8 dei 17 pazienti osservati (47%) l’infezione ha un ruolo su questa condizione. Se consideriamo questo disturbo dell’equilibrio tra i disturbi del Long-COVID, questi dati, seppur preliminari, identificano un 11% della PPPD legata all’infezione da Sars-CoV2, percentuale che è in linea con i dati relativi al Long-COVID”, afferma la professoressa Di Stadio.

Differenti studi scientifici, spiega l’Irccs in una nota, confermano che a distanza di 5 anni dalla pandemia, sebbene l’infezione da Sars-CoV2 sia diventata tra i virus che causano ormai comunemente raffreddori ed influenza, le sequele di questa infezione ancora hanno un importante impatto su una parte della popolazione mondiale. “A livello mondiale si stima che una percentuale tra il 10 e 25% delle persone che hanno avuto il COVID-19 presenti la persistenza di alcuni sintomi a distanza di 4-5 settimane dalla risoluzione dell’infezione. I sintomi più comuni del Long-COVID sono la stanchezza persistente, i disturbi dell’attenzione (la cosiddetta Brain fog) la cefalea persistente, i disturbi di gusto e olfatto. A questi sintomi si aggiungono poi i disturbi di ansia, tosse persistente, disturbi del ritmo cardiaco”.

“Uno studio pubblicato su JAMA- Neurology - riferisce la nota - ha spiegato come l’infezione da SARS-CoV2 sia in grado di scatenare una neuro-infiammazione a sua volta responsabile dei sintomi del Long-COVID; studi condotti in diverse parti del mondo sui primati (scimmie), inclusi Stati Uniti, Olanda e Giappone, e pubblicati su rinomate ed accreditate riviste scientifiche di settore, dimostrano come il virus sia in grado di causare l’infiammazione del cervello, pur senza attraversare direttamente la barriera ematoencefalica”.

11 luglio 2024
© Riproduzione riservata

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