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Diabete. Come evitare il rigetto in caso di trapianto. Lo studio italiano


La ricerca del San Raffaele di Milano ha testato l'uso di inibitori dei processi che portano al danneggiamento del tessuto trapiantato nel caso di trapianto delle cosiddette "isole di Langerhans", cellule del pancreas capaci di reintegrare la secrezione endogena di insulina in caso di diabete. 

25 SET - Uno dei metodi sperimentali per alleggerire i pazienti diabetici dalle quotidiane punture di insulina, è quella di trapiantare le cosiddette isole di Langerhans, agglomerati di cellule nel pancreas che producono l’ormone. Tuttavia, come tutti i trapianti, anche questo può innescare una risposta immunitaria che porta a rigetto. Ma il problema sembrerebbe essere stato in parte risolto da una équipe di ricercatori del San Raffaele: per la prima volta infatti, gli scienziati avrebbero dimostrato l’utilità degli inibitori dei recettori per chemiochine (proteine in grado di governare il movimento delle cellule nel nostro corpo) nel favorire l’attecchimento e la sopravvivenza delle isole di Langerhans dopo il trapianto in pazienti con diabete di tipo 1. La ricerca è pubblicata su Journal of Clinical Investigation (JCI).
 
Il sistema immunitario reagisce al trapianto delle isole di Langerhans, il tessuto che produce l’insulina nell’uomo, in relazione al tipo di cellule coinvolte. Le terapie utilizzate fino ad ora per evitare il rigetto avevano lo scopo di inibire un gruppo particolare di cellule immunitarie, i linfociti, il cui compito è eliminare le cellule trapiantate con conseguente rigetto del tessuto.
Dopo aver dimostrato che un altro tipo di cellule, i polimorfonucleati, partecipano attivamente ai processi di danneggiamento del tessuto trapiantato facilitandone la distruzione e il rigetto, i ricercatori del San Raffaele hanno però pensato di tentare di utilizzare farmaci in grado di inibire la migrazione di queste cellule, per evitare il fenomeno in modelli murini di trapianto. Si è così dimostrato come la somministrazione di inibitori dei recettori per chemiochine CXCR1/2 riduca non solo l’accumulo dei polimorfonucleati nel sito di impianto e la conseguente infiammazione ma anche, e soprattutto, favorisca la sopravvivenza del tessuto trapiantato nel tempo. L’équipe ha altresì verificato come tale terapia anti recettori CXCR1/2 aumenti significativamente la sopravvivenza e la funzione del tessuto trapiantato anche nell’uomo senza provocare effetti secondari indesiderati.
 
I farmaci anti recettore CXCR1/2 riducono infatti la risposta autoimmune, cioè la migrazione dei leucociti nella sede di impianto, e aumentano la funzionalità e la sopravvivenza del tessuto che produce insulina dopo trapianto aprendo una nuova prospettiva terapeutica sia nel campo del trapianto sia nella cura del diabete. “Prevenire il rigetto e favorire la sopravvivenza del trapianto di tessuto mediante l’uso di anti recettori per chemiochine è un concetto innovativo che identifica la risposta infiammatoria al centro di una reazione molto complessa”, ha spiegato Lorenzo Piemonti, responsabile dell’Unità della biologia della beta cellula dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano. ”La ricaduta clinica di questo approccio potrebbe essere estremamente rilevante sia nel campo del diabete di tipo 1 (e forse tipo 2) che in quello dei trapianti. Il fatto che questi farmaci siano già disponibili per lo studio nell’uomo, con un profilo di sicurezza estremamente favorevole, fa sì che nei prossimi mesi si potrà iniziare studi multicentrici a livello internazionale sia nel trapianto di isole sia nei pazienti diabetici di tipo 1 all’esordio di malattia” .
“Tali studi coinvolgendo un numero maggiore di pazienti – hanno poi aggiunto Antonio Citro ed Elisa Cantarelli, membri dell’Unità della biologia della beta cellula e primi autori dello studio – avranno la possibilità di confermare definitivamente nei prossimi due-tre anni la validità dell’approccio”

La molecola utilizzata per inibire i recettori per chemiochine CXCR1/2 è Reparixin, il capostipite di una nuova classe di farmaci sviluppati dall’ azienda italiana biofarmaceutica Dompè, che ha partecipato allo studio. “L ’esperienza di Reparixin rappresenta una conferma della necessità di una sinergia tra ricerca pubblica e privata per poter offrire ai pazienti risposte di cura innovative, in aree ad alto bisogno terapeutico ”, ha concluso Eugenio Aringhieri , Amministratore Delegato del Gruppo Dompé.

25 settembre 2012
© Riproduzione riservata

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