“Nebbia cerebrale” post Covid. Sul banco degli imputati un processo neuro-infiammatorio innescato da una molecola. Lo studio di NEJM
di Marco Landucci
Deficit nell’attenzione, nelle funzioni esecutive, nel linguaggio, nella velocità di elaborazione del pensiero e nella memoria. Sono alcuni dei sintomi che definiscono la sindrome della “nebbia cerebrale” post Covid. Uno studio pubblicato dal dal New England Journal of Medicine avanza l’ipotesi di un processo neuro-infiammatorio del cervello che attiva le cellule della macrociglia, macrofagi residenti nel sistema nervoso centrale. L’attivazione delle cellule della microglia sembra essere mediata da livelli persistentemente di una molecola chiamata chemochina 11 (CCL11)
11 NOV - Molti pazienti con un’infezione da SARS-CoV-2, inclusi quelli che hanno poi sviluppato una malattia blanda - riportano deficit nell’attenzione, nelle funzioni esecutive, nel linguaggio, nella velocità di elaborazione del pensiero e nella memoria. Questi sintomi sono stati collettivamente riferiti come “nebbia cerebrale”.
Insieme a un incremento dell’incidenza di ansia, depressione, disturbi del sonno, stanchezza, questa sindrome da deterioramento cognitivo contribuisce sostanzialmente alla morbilità delle condizioni post-Covid-19 (detto anche “Long Covid”).
La sindrome del “nebbia cerebrale” correlata al Covid è difficile da diagnosticare in una diagnosi differenziale, perché i dati neurocognitivi longitudinali non sono disponibili in misura sufficiente. A livello di popolazione, invece, è ben documentato il declino cognitivo post Covid.
Uno studio di
Fernández-Castañeda e colleghi, del Dipartimento di Neurologia dell’Ospedale Universitario di Heidelberg, in Germania – pubblicato dal New England Journal of Medicine - potrebbe rappresentare un fondamentale passo avanti nella comprensione di questa sequela dell’infezione SARS-CoV-2.
Usando un modello murino, i ricercatori hanno osservato come lievi infezioni respiratorie da SARS-CoV-2 possano condurre a neuroinfiammazione e conseguente danno cerebrale attraverso la disregolazione multilineare delle cellule neurali.
Fernández-Castañeda e colleghi hanno “ricreato” una forma lieve di Covid in un topo che esprimeva il recettore di ingresso virale per SARS-CoV-2 (enzima di conversione dell'angiotensina 2 nell'uomo) nella trachea e nel polmone, erogando il virus per via intranasale.
Il team non ha rilevato SARS-CoV-2 nel cervello del modello murino, ma ha riscontrato segni di neuroinfiammazione a livelli elevati di chemochine nel liquido cerebrospinale e nel siero, in tempi diversi.
Questi cambiamenti hanno portato all'attivazione della microglia nelle regioni della sostanza bianca sottocorticale e ippocampale (ma non nella materia grigia), con effetti distinti su specifiche popolazioni di cellule neurali.
Le evidenze raccolte da Fernández-Castañeda e colleghi sono supportate da risultati simili riscontrati in un piccolo gruppo di pazienti con un'infezione da SARS-CoV-2 e nessun danno polmonare grave al momento della morte.
Le cellule della microglia sono macrofagi residenti nel sistema nervoso centrale.
Sebbene contribuiscano all'omeostasi del sistema nervoso centrale e al perfezionamento delle reti neuronali rimuovendo le spine dendritiche e le sinapsi durante lo sviluppo dei neuroni, queste cellule possono passare a uno stato neurotossico attivato, come è stato appunto riscontrato dai ricercatori nel modello murino.
Nella sostanza bianca sottocorticale, l'attivazione delle cellule della microglia era associata alla perdita sia dei precursori degli oligodendrociti, sia degli oligodendrociti maturi; coerentemente con questa perdita, si è verificata anche una perdita di mielina e assoni mielinizzati per almeno 7 settimane dopo l'inizio dell'infezione.
La mielina isola gli assoni ed è fondamentale per la velocità di conduzione elettrica lungo i neuroni e per il metabolismo assonale. La perdita di assoni mielinizzati altera la struttura e la funzione delle reti neuronali.
Nell'ippocampo l'attivazione delle cellule della microglia è associata a neurogenesi inibita, che potrebbe spiegare la ridotta formazione della memoria nei pazienti.
Nel modello murino studiato, l'attivazione delle cellule della microglia sembra essere mediata da livelli persistentemente elevati di una molecola chiamata chemochina 11 (CCL11) con motivo CC. CCL11 è stato associato all'invecchiamento e all'inibizione della neurogenesi.
L'iniezione intraperitoneale sistemica di CCL11 nel modello murino ha provocato l'attivazione della microglia dell'ippocampo ma non della microglia nella sostanza bianca sottocorticale.
Coerentemente con queste evidenze, le persone con Long Covid e deficit cognitivi avevano livelli sierici di CCL11 più elevati rispetto a quelle con Long Covid senza sintomi cognitivi.
Secondo gli autori, l'effetto di CCL11 sull'attivazione delle cellule della microglia nell'ippocampo e sull'inibizione della neurogenesi giustifica un'ulteriore esplorazione degli effetti delle chemochine e delle citochine specifiche sui circuiti cerebrali e offre potenzialmente un quadro per studiare, prevenire e trattare i sintomi neurologici e psichiatrici del Long Covid.
Le scoperte del team di Fernández-Castañeda e colleghi hanno anche parallelismi patobiologici con le sindromi da deterioramento cognitivo che si verificano dopo la terapia del cancroe dopo l'infezione da virus H1N1.
Le prospettive. CCL11 come biomarkerLe evidenze emerse dallo studio potrebbero portare a una cura per la “nebbia cerebrale” correlata a Covid? Diversi farmaci che prendono di mira la microglia attivata sono stati testati in modelli preclinici di sindromi di deterioramento cognitivo meccanicamente simili a quella del Covid.
Pexidartinib, un inibitore del recettore CSF1, è stato approvato dalla Food and Drug Administration per il trattamento dei tumori sintomatici tenosinoviali a cellule giganti e può esaurire l’attivazione delle cellule della microglia.
Anche alcuni agenti antinfiammatori non steroidei e le tetracicline possono inibire l’attività delle microglia. I risultati dello studio di Fernández-Castañeda e colleghi supportano la sperimentazione di modulatori microgliali per il trattamento della nebbia cerebrale correlata al Covid.
In chiave terapeutica potrebbe rivelarsi utile anche lo studio del targeting dei regolatori a monte dell'attivazione microgliale, come CCL11.
Se queste evidenze saranno convalidate da studi futuri, i livelli di CCL11 nel plasma o nel liquido cerebrospinale potrebbero potenzialmente identificare i pazienti con deterioramento cognitivo correlato a Covid.
Inoltre campioni di CCL11 potrebbero essere utilizzati anche per studiare l'effetto delle vaccinazioni contro Covid sui cambiamenti legati alla nebbia cerebrale.
Tuttavia, poiché sono state studiate solo piccole coorti di pazienti e fattori come il sesso del paziente e la storia di malattie autoimmuni possono influenzare i livelli sierici di CCL11, sono necessari ampi studi clinici di coorte per escludere variabili confondenti e confermare ulteriormente CCL11 come biomarker.
Infine, la scoperta della demielinizzazione assonale (o mielinizzazione compromessa) in sezioni del modello potrebbe aprire gli orizzonti della ricerca verso lo sviluppo di nuovi biomarcatori di risonanza magnetica per l'uomo.
Marco Landucci
11 novembre 2022
© Riproduzione riservata
Altri articoli in Scienza e Farmaci