Diabete e rischio infarto. Studio Gemelli prevede chi rischia di più
La presenza o l’assenza di complicanze microvascolari potrà guidare i curanti ad una terapia preventiva personalizzata basata su una profilazione clinica del paziente con diabete tipo 2 più accurata. I risultati della ricerca pubblicati su Cardiovascular Diabetology.
31 OTT - Il diabete è uno dei principali fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, come infarto, ictus e arteriopatie periferiche. Ma il percorso di malattia che porta ad un infarto, vero e proprio terremoto nella vita di una persona, non è lo stesso per tutti i soggetti con diabete di tipo 2. Ad individuare due diversi gruppi di pazienti con diabete di tipo 2, che sviluppano negli anni due diverse tipologie di cardiopatia ischemica, sono stat
i Rocco Antonio Montone, dirigente medico presso la Unità operativa complessa di Terapia Intensiva Cardiologica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs e dottore di ricerca in Cardiologia presso l’Università Cattolica, e
Dario Pitocco, Direttore dell’Unità operativa di Diabetologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs e Professore Associato di Endocrinologia dell’ Università Cattolica.
A fare la differenza è la presenza o meno di complicanze microvascolari. Parametro che potrebbe consentire di stratificare la popolazione diabetica prima della comparsa di un infarto e dunque guidare il medico alla migliore terapia preventiva, in maniera personalizzata. È la prima volta che vengono distinte queste due grandi popolazioni di persone con diabete di tipo 2, che sviluppano due diverse tipologie di aterosclerosi: una più diffusa e con caratteristiche di stabilità, l’altra più ‘acuta’. La ricerca è stata appena pubblicata su Cardiovascular Diabetology.
“Analizzando i risultati della coronarografia, integrati con studio OCT (optical coherence tomography) – spiega in una nota Rocco Antonio Montone, cardiologo - abbiamo evidenziato nella popolazione diabetica due diverse tipologie di pazienti: quelli che hanno un’unica grossa placca aterosclerotica ‘soft’, cioè ricca di lipidi e dunque pronta alla rottura (la tipologia alla base degli infarti più gravi, magari intorno ai 50-60 anni) e quelli che hanno estese calcificazioni e tante piccole placche ‘guarite’, diffuse su tutto l’albero coronarico, che danno sintomi cronici di tipo anginoso, piuttosto che un grave infarto acuto”.
“I pazienti del primo gruppo – aggiunge Dario Pitocco, diabetologo– sono in genere più giovani, obesi, dislipidemici e con un diabete caratterizzato soprattutto dalla resistenza insulinica, più che dalla carenza. Nell’altro gruppo troviamo pazienti in genere più anziani, magri, con un pancreas che ha esaurito la sua funzione e che necessitano dunque di fare terapia insulinica. Analizzando la presenza o meno di complicanze microvascolari, abbiamo evidenziato la presenza di una correlazione tra complicanze microvascolari diabetiche e tipologia di aterosclerosi ed eventi cardiovascolari al follow up”.
Gli autori dello studio hanno arruolato 320 pazienti diabetici (età media 70 anni) con cardiopatia ischemica, al loro primo evento coronarico e sottoposti per questo a coronarografia; in un sottogruppo di pazienti è stato utilizzato anche l’OCT, una specie di microscopio che consente di vedere ‘da dentro’ i dettagli della parete coronarica. I pazienti sono stati suddivisi in gruppi diversi a seconda della presenza o meno di complicanze microvascolari (retinopatia, nefropatia e neuropatia diabetiche). Tutti sono stati inoltre seguiti nel tempo per registrare la comparsa di ulteriori eventi cardiovascolari maggiori (MACE). Lo studio ha dimostrato che i pazienti con complicanze microvascolari diabetiche tendono a presentare una cardiopatia ischemica caratterizzata da tante calcificazioni e dalle cosiddette placche ‘guarite’ (una sorta di ‘cicatrice’ che è indice di un infarto che stava per verificarsi, ma non è mai avvenuto). Al contrario, i soggetti senza complicanze microvascolari tendono a presentare una cardiopatia ischemica caratterizzata da grandi placche aterosclerotiche lipidiche. Al follow up, il gruppo di pazienti con microcalficazioni ha presentato un maggior numero di MACE, configurando in questo modo una popolazione con cardiopatia ischemica più suscettibile a ospedalizzazioni ripetute.
“All’interno del gruppo delle persone con diabete di tipo 2 – commenta il professor Pitocco - si distinguono due grandi gruppi di pazienti: quelli con resistenza all’insulina e quelli con carenza insulinica. Anche dal punto di vista delle complicanze vascolari, si distinguono i pazienti che fanno soprattutto complicanze microvascolari, cioè a carico dei piccoli vasi arteriosi (retinopatia che può portare a gravi danni alla vista, nefropatia che può portare all’insufficienza renale, neuropatia diabetica che può favorire le lesioni del piede, neuropatia autonomica) e altri che non presentano questo tipo di complicanze. Entrambi questi gruppi possono presentare complicanze a livello coronarico, ma con meccanismi diversi, a cominciare dalla composizione della placca aterosclerotica. La calcificazione – prosegue Pitocco - è un processo caratteristico anche della neuropatia periferica diabetica; e con il nostro studio abbiamo evidenziato che, a livello coronarico, i pazienti con complicanze microangiopatiche presentano una composizione di placca diversa rispetto ai diabetici senza complicanze microangiopatiche. Forse la presenza di calcificazioni è legata alla microangiopatia e all’insulina, cioè alla capacità fibrosante dell’insulina (le cellule muscolari lisce dei vasi si trasformano in cellule osteoblastic-like, in grado di depositare calcio sulle pareti dei vasi). Questi stessi pazienti dal punto di vista del loro fenotipo metabolico hanno una carenza di secrezione insulinica e necessitano dunque di una terapia a base di insulina”.
“In questo studio – prosegue Montone - abbiamo evidenziato due categorie di pazienti: quelli insulino-privi con un diabete di tipo 2 di vecchia data, in terapia con insulina, più magri e con complicanze microvascolari, che alla coronarografia presentano un’aterosclerosi più diffusa e i pazienti più ‘metabolici’ con obesità centrale, con resistenza insulinica, in terapia con metformina, che fanno dei grossi infarti perché hanno delle placche ricche lipidi e più instabili- Sono tutti pazienti alla loro prima coronarografia, effettuata in seguito ad un infarto acuto o perché sono risultate positive una prova da sforzo o una scintigrafia o ancora a seguito della comparsa di sintomi anginosi. Insomma tutte persone con diabete al primo evento coronarico ‘stabile’ o ‘acuto’. I pazienti insulino-privi, con malattia coronarica più estesa ma più stabile (più fibrosi, più calcificazioni) alla prima coronarografia, nel corso del follow up continuano ad avere una cardiopatia ischemica ‘stabile’. L’altro gruppo, rappresentato da pazienti diabetici con obesità centrale (la ‘pancia’), insulino-resistenti, in terapia con metformina, presentano un profilo lipidico più alterato e fanno più eventi acuti”.
La placca aterosclerotica in questa ricerca è stata studiata attraverso l’OCT, che ha rilevato più placche fibrose con grosse calcificazioni che stabilizzano la placca negli insulino-privi e più placche lipidiche con ‘spotty calcification’ (piccoli punti di calcio che portano la placca alla rottura, la destabilizzano) negli insulino-resistenti.
“Negli insulino-privi – spiegaMontone – abbiamo trovato anche tante placche ‘guarite’ (healed), una sorta di rotture ‘abortite’, che non si sono manifestate clinicamente. Il paziente insulino-privo ha insomma maggiori meccanismi di stabilizzazione della placca sia attraverso il calcio, che con la fibrosi, che con le placche healed, rispetto al paziente insulino-resistente”.
L’OCT e la profilazione clinica del paziente (insulino-privo o resistente, con complicanze microvascolari o meno) possono diventare dunque strumenti di stratificazione del rischio di futuri eventi coronarici. I risultati di questo studio suggeriscono inoltre un atteggiamento terapeutico differenziato su queste due tipologie di pazienti con diabete di tipo 2. “Nel tipo microangiopatico – spiega Pitocco - il trattamento della glicemia deve essere più intensivo; nel fenotipo insulino-resistente deve essere data maggior attenzione al trattamento di tutti i fattori di rischio associati (dislipidemia, obesità, ipertensione)”.
“La medicina personalizzata – conclude
Filippo Crea, Direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari e Pneumologiche, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS e Ordinario di Cardiologia dell’Università Cattolica – è l’obiettivo finale verso cui tende la medicina moderna. Questa è già realtà clinica per le malattie caratterizzate da una singola alterazione genetica. Per le malattie complesse, come la cardiopatia ischemica e il diabete, causate dall’interazione fra alterazioni poligeniche e fattori ambientali di rischio, un primo approccio intermedio è la medicina personalizzata. Questo vuol dire che i pazienti che presentano la stessa manifestazione clinica, per esempio il diabete o la cardiopatia ischemica, vengono suddivisi in gruppi omogenei che hanno un simile meccanismo di malattia. Lo studio pubblicato da Montone e Pitocco dimostra chiaramente che fra i pazienti che presentano diabete e cardiopatia ischemica è possibile identificare due sottogruppi con diversi meccanismi di malattia che richiedono diverse terapie: questa è la medicina stratificata”.
31 ottobre 2022
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