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Conoscere il Parkinson: che cos’è e come si cura?


11 APR - È una malattia neurodegenerativa (lo specialista di riferimento è il neurologo) causata dalla progressiva morte delle cellule nervose (neuroni) situate nella cosiddetta sostanza nera, una piccola zona del cervello che, attraverso il neurotrasmettitore dopamina, controlla i movimenti di tutto il corpo. Chi ha il Parkinson, proprio per la progressiva morte dei neuroni, produce sempre meno dopamina, perdendo il controllo del suo corpo. Arrivano così tremori, rigidità, lentezza nei movimenti. E’ stato dimostrato che i sintomi iniziano a manifestarsi quando sono andati perduti circa il 50-60% dei neuroni dopaminergici.

Cause e nuove ipotesi
Le cause della malattia sono ancora sconosciute, nonostante sia stata descritta per la prima volta nel 1817 dal dottor James Parkinson. Le ultime ipotesi sulle cause della malattia sono di due tipi: ambientali e genetiche. Studi epidemiologici hanno dimostrato che l’esposizione a fattori quali pesticidi e metalli pesanti aumenta il rischio di sviluppare la malattia. Ma anche la tesi di un difetto genetico sta ottenendo maggiori evidenze: nel 20% dei pazienti con precedenti di Parkinson in famiglia il gene difettoso è stato, infatti, identificato. Un importante sistema deposto alla detossificazione e alla pulizia dei metabolici neurotossici è quello della ubiquitina-proteasomi che pulisce il cervello dalle proteine e le ricicla in aminoacidi riutilizzabili. Se questo sistema si inceppa o funziona male, come sembra succedere nel Parkinson, le proteine tossiche possono accumularsi bloccando il corretto funzionamento delle cellule dopaminergiche.
Ci sono dei fattori protettivi?
Il consumo di caffè proteggerebbe dalla malattia di Parkinson. Uno studio su 8004 soggetti seguiti  per oltre 30 anni ha scoperto che chi non beveva caffè aveva un rischio 5 volte più elevato rispetto ai soggetti che bevevano una grande quantità di caffè al giorno. Meno chiara la relazione con il fumo: non è infatti ancora certo se sia il fumo a proteggere in quanto tale, o se i soggetti inclini a sviluppare la malattia di Parkinson tendano, per qualche ragione ancora non nota, ad evitare il fumo.

Come si scopre il Parkinson?
La diagnosi si basa essenzialmente sui sintomi. Gli esami strumentali (RMN encefalo, esami ematochimici) possono essere utili per escludere numerose altre patologie che possono avere gli stessi sintomi della malattia, pur avendo cause differenti. Esami particolari come SPECT e PET possono confermare la diagnosi. A tale proposito una nuova metodica di immagine funzionale (DaTSCAN) è in grado di confermare o escludere la compromissione del sistema dopaminergico anche in uno stadio precoce della malattia. Questo esame, che consiste nell’iniezione di un particolare tracciante in vena, e quindi nell’acquisizione di scansioni cerebrali con apparecchi SPECT, mostrerà un’alterazione dei livelli di dopamina nei gangli della base nei casi di Parkinson idiopatico e nei parkinsonismi veri, sarà normale nei casi di tremore essenziale e nelle condizioni cliniche di rallentamento non-parkinsoniano. Gli apparecchi per l’esecuzione delle immagini SPECT sono simili a quelli per la TAC, ma forniscono immagini cerebrali “funzionali” invece che anatomiche. Rispetto alla PET, la SPECT è più diffusa per il minore costo sia dell’apparecchio che dei traccianti utilizzati. L’esame con DaTSCAN non può considerarsi come conclusivo nella diagnosi di Parkinson, ma indubbiamente una buona visita neurologica, con l’ausilio dell’esame SPECT con DaTSCAN può portare a una diagnosi molto accurata. Inoltre l’esame può essere di conforto nel confermare o escludere definitivamente una diagnosi di Parkinson.
I più giovani ignorano i sintomi Il 25% dei malati di Parkinson non sa di esserlo perché i sintomi sono leggeri e confondibili con altri, e quindi non ha ottenuto una diagnosi certa: succede soprattutto ai pazienti nella fascia di età 40-50 anni. Per esempio, la rigidità di un arto viene attribuita a cause quali un’infiammazione articolare, reumatismi, postura scorretta. In realtà possono essere i primi segnali della malattia. Il medico di famiglia deve allora abituarsi a pensare anche all’eventualità del Parkinson, nonostante la giovane età del paziente, se i sintomi non trovano sollievo o conferme sulla causa dagli esami.

Quali terapie per curare la malattia?
Le cure si basano essenzialmente su farmaci che hanno la capacità di bloccare i sintomi del Parkinson, ma che perdono di efficacia man mano che la malattia si aggrava (si hanno disturbi del cammino e dell’equilibrio con aumentato rischio di cadute) o danno problemi psichici (confusione, allucinazioni). Fino ad oggi, quindi, la malattia è stata  combattuta solo a livello dei sintomi, non nella sua progressione. Alcuni recenti studi con farmaci antiossidanti fanno però ritenere possibile che si possa trattare la malattia non solo contrastandone  i sintomi ma anche  rallentandone il decorso.

Quando bisogna iniziare le terapie?
Il prima possibile, nelle fasi iniziali della malattia. Il vantaggio consiste nella miglior qualità di vita dei pazienti trattati al comparire dei primi sintomi motori, rispetto ai pazienti curati tardivamente, quando i sintomi motori producono invalidità funzionale. Sappiamo che i sintomi del Parkinson sono scatenati dalla riduzione della produzione cerebrale del neurotrasmettitore dopamina, e che tale inconveniente cresce con il progredire della malattia. Una delle nuove frontiere della terapia del Parkinson sta proprio nel cercare di far fronte non solo ai sintomi invalidanti quale tremore e rigidità motorie, ma di proteggere le cellule cerebrali dalla progressiva degenerazione che porta, alla fine, anche alla demenza.
Il futuro: la neuroprotezione. Attualmente sono in corso diversi studi sperimentali con farmaci che in laboratorio hanno dimostrato di proteggere le cellule nervose dai danni della malattia. Con questa strategia farmacologia innovativa, detta neuroprotezione, ci sono buone possibilità di sperare ad un futuro in cui si possa frenare il decorso della malattia.

La terapia fisica è importante?
Un corretto approccio alla gestione della malattia di Parkinson non può prescindere da una presa in carico globale dei pazienti che preveda anche una specifica attenzione verso i sintomi non-motori della malattia e faccia ricorso a interventi di carattere riabilitativo. Recenti studi hanno concluso che la terapia fisica, seppur non in grado di modificare la progressione della malattia, può migliorare le capacità funzionali dei pazienti, anche se con benefici limitati nel tempo. La riabilitazione dei pazienti con malattia di Parkinson prevede un approccio “fisiologico” volto a correggere i meccanismi deficitari del controllo motorio, con un intervento “personalizzato” in base al livello di disabilità e alle caratteristiche individuali del soggetto, e con esercizi “compito-specifici” nel contesto ambientale della vita quotidiana.

11 aprile 2013
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