Tumore prostata. Aiom: “Nel 50% dei casi impedisce i gesti quotidiani. Oggi possiamo migliorare sopravvivenza e qualità di vita”
29 OTT - L’impatto del tumore della prostata metastatico sulla quotidianità dei pazienti che sviluppano sintomi correlati alla malattia può essere importante. Arrivando, in alcuni casi, a non dormire o a camminare per il dolore. Il 62% avverte il bisogno di stare a letto o su una sedia per alcune ore del giorno, il 52% ha difficoltà nel fare anche solo una breve passeggiata fuori casa, il 78% non è in grado di svolgere attività faticose o di portare oggetti pesanti come la busta della spesa. Il dolore, in particolare alle ossa, rappresenta uno dei sintomi debilitanti per questi malati: il 61% è colpito da questo disturbo, che nel 50% è tale da impedire di svolgere semplici attività quotidiane (l’85% afferma infatti di sentirsi debole). I dati emergono da una ricerca condotta dalla Fondazione Istud e presentata al XIX Congresso Nazionale Aiom (Associazione Italiana di Oncologia Medica) che si chiude oggi a Roma.
Nel 2017 in Italia sono stimati 34.800 nuovi casi di tumore della prostata: la neoplasia più frequente tra gli uomini, rappresentando oltre il 20% di tutti i tumori diagnosticati negli over 50, ma anche quella caratterizzata da una elevata eterogeneità clinica, oscillando fra forme a bassa aggressività e forme clinicamente importanti.
“La sopravvivenza a 5 anni è particolarmente elevata, pari al 91,4% - spiega
Carmine Pinto, presidente nazionale Aiom -. Oggi abbiamo molte armi a disposizione per sconfiggere o controllare la malattia che spaziano dalla chirurgia, alla chemioterapia, alla radioterapia, alla brachiterapia, fino all’ormonoterapia. E, quando la neoplasia ha dimensioni ridotte e scarsa aggressività, i pazienti possono essere sottoposti a sorveglianza attiva che prevede il monitoraggio attraverso esami specifici e controlli periodici, in alternativa alle terapie radicali. Purtroppo sintomi come la frequente necessità di urinare, il dolore alla minzione e la presenza di sangue nelle urine vengono spesso sottovalutati dai pazienti. Inoltre questi segnali, comuni anche ad altre patologie locali, compaiono solo se la neoplasia è abbastanza voluminosa da esercitare pressione sull’uretra. È difficile quindi che vengano avvertiti quando la malattia è in stadio iniziale e di piccole dimensioni”.
L’80-90% delle persone con carcinoma della prostata metastatico ha come sede colpita le ossa con possibile presenza di dolore e aumentato rischio di fratture. “Oltre alla messe di farmaci chemioterapici e ormonali, anche di ultima generazione, disponibili possiamo trattare con efficacia questi pazienti, se sintomatici, anche con terapie radiometaboliche, oggi disponibili in un ambito di cura sempre più multidisciplinare - continua
Sergio Bracarda, Direttore dell’Oncologia Medica di Arezzo e del Dipartimento Oncologico dell’Azienda USL Toscana SUDEST -. In particolare, il Radium-223 dicloruro (Ra-223) appartiene a una nuova classe di radiofarmaci ad azione selettiva sulle metastasi ossee. Ra-223 può migliorare la sopravvivenza globale nei pazienti con lesioni ossee dolenti ed emettendo radiazioni alfa, rispetto ad altre terapie, non provoca danni evidenti al midollo osseo che possano condizionare l’ulteriore strategia terapeutica, migliora in modo significativo la qualità della vita anche attraverso un buon controllo del dolore osseo eventualmente presente”.
Lo studio della Fondazione Istud, realizzato fra ottobre 2016 e luglio 2017, ha coinvolto 50 pazienti con carcinoma prostatico metastatico e 50 familiari (con il contributo anche degli operatori sanitari). Hanno partecipato 4 centri di Medicina Nucleare: Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna, Ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar (Verona), Policlinico G. Martino di Messina e Policlinico Umberto I di Roma. “L’approccio a una patologia come il tumore della prostata è necessariamente multidisciplinare – sottolinea
Giuseppe De Vincentis, della Medicina Nucleare del Policlinico Umberto I di Roma -. Il nostro compito è lavorare in team con l’oncologo e valutare quando e se è appropriato l’uso di un determinato radiofarmaco. La medicina nucleare utilizza sostanze radioattive per colpire le cellule tumorali. A differenza della radioterapia classica però la somministrazione delle radiazioni avviene dall’interno e non dall’esterno. L’idea che siano iniettati dentro l’organismo atomi radioattivi talvolta può spaventare i pazienti, in realtà la procedura è molto sicura”.
Le dosi utilizzate sono molto basse. Il paziente rimane radioattivo per poco più di 24 ore e nei giorni successivi queste componenti sono eliminate dall’organismo attraverso le feci. “Chi assume radiofarmaci – continua il prof. De Vincentis - deve semplicemente seguire le normali norme igieniche e, soprattutto, lavarsi molto bene le mani prima e dopo essere andato in bagno. In questo modo vengono eliminati liquidi e fluidi che possono avere al loro interno anche una piccolissima quantità di materiale radioattivo. In particolare i radiofarmaci alfa emittenti hanno la capacità di agire solo sui tessuti malati risparmiando tutto ciò che sta attorno. Inoltre le particelle alfa sono molto pesanti, per questo sono in grado di erogare maggiori quantità di irradiazione rispetto a quelle beta utilizzate in passato. Si aprono così nuovi orizzonti nella terapia radiometabolica”. Il 78% dei pazienti che hanno partecipato alla ricerca ha giudicato positivamente il trattamento con questa nuova classe di radiofarmaci, in particolare la migliore gestione del dolore (48%) e il fatto di avere più energie (33%).
“Abbiamo colto una grande disponibilità delle persone a raccontarsi, soprattutto considerando lo stato avanzato della malattia, la durata dei colloqui (in media superiore a 30 minuti) e l’aver affrontato durante la narrazione aspetti clinici e legati al vivere con questa neoplasia, in alcuni casi delineando veri e propri bilanci di vita – afferma
Luigi Reale, Coordinatore dei progetti di ricerca dell’Area Sanità e Salute della Fondazione ISTUD -. Questa ricerca nasce con l’obiettivo di ripercorrere il ‘viaggio nelle cure’ (patient’s journey) di persone con carcinoma prostatico in fase avanzata attraverso la voce diretta non soltanto di chi vive questa esperienza (persona con carcinoma alla prostata), ma anche di coloro che prestano assistenza (caregiver, in particolare familiari) e cura (professionisti sanitari). Lavorare sul ‘viaggio nelle cure’ vuol dire avere una visione privilegiata della gestione della malattia, collezionare dati e informazioni per comprendere quali siano le aree critiche per migliorare la qualità e l’efficienza delle cure. Abbiamo utilizzato lo strumento lo Medicina Narrativa perché consente di recuperare il valore del paziente come ‘persona’, ‘individuo’ portatore di una malattia o di una condizione cronica che può modificarne il percorso di vita”.
Proprio lo strumento della medicina narrativa ha permesso di far emergere ciò che spesso non viene detto, per pudore o vergogna. Il 15% dei pazienti desidera essere ascoltato costruendo una relazione con il medico non basata soltanto sulla gestione degli aspetti clinici ma che abbia anche una componente umana. Anche le conseguenze dei trattamenti sulla sessualità sono argomenti spesso sottovalutati dai clinici: il 33% dei pazienti accetta la nuova condizione, il 22% è in cerca di soluzioni, il 19% afferma che il problema non è stato affrontato, per l’11% è una grande criticità e sempre l’11% si definisce rassegnato.
“Il paziente e la sua compagna si trovano spesso soli a gestire questi aspetti – conclude
Paolo Gritti, presidente della Società Italiana di Psico-Oncologia (SIPO) -. Il cancro alla prostata avanzato è una malattia di tutta la famiglia, in particolare della coppia. La fase successiva all’intervento impatta molto sui malati a livello emotivo, per questo le loro compagne svolgono un ruolo fondamentale nel sostenerli, trovando anche nuovi modi per vivere l’intimità e stare insieme. Un approccio multidisciplinare nel sostegno al gruppo familiare si rivela essenziale anche da questo punto di vista. Inoltre molte caregivers hanno vissuto precedenti esperienze di tumore al seno o all’utero, quindi rivivono indirettamente il manifestarsi della malattia e delle terapie, con inevitabili conseguenze a livello psicologico”. Il 67% dei caregiver vorrebbe uscire di casa per lunghi periodi, il 52% esprime il bisogno di disporre più tempo per sé e il 47% sostiene che la cura della persona malata influisce sul proprio lavoro.
29 ottobre 2017
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