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Speciale Ospedali/2. La qualità delle cure nelle grandi strutture. Da Milano a Palermo


Dal Nord al Sud alcune lavorano così bene da ridurre al minimo la mortalità, diventando punti di riferimento nazionali. Ma ci sono anche quelle dove si rischia. Bocciate le grandi strutture del Sud Italia per le fratture al femore e per eccesso di cesarei. Una foto scattata dal Programma nazionale esiti dell'Agenas. I dati.

19 OTT - Se devi sottoporti a un intervento di By pass aortocoronarico, dalla Lombardia alla Sicilia, trovi strutture con ampi volumi di attività che brillano a livello nazionale per il lavoro svolto, ma anche grandi ospedali che “inciampano” in esiti molto lontani dai risultati medi conseguiti in strutture più piccole. Se devi affrontare un intervento di valvuloplastica, i grandi ospedali offrono, e senza dubbi, ampie garanzie: ben tre grandi strutture capitanate dal San Raffaele di Milano si posizionano a livello nazionale tra i primi dieci ospedali italiani con i più bassi tassi di mortalità a trenta giorni. Solo per il Mauriziano di Torino suona l’“allarme rosso”.
E ancora, quando si parla di varcare la soglia della camera operatoria per tumore gastrico non ci sono dubbi: l’alto numero di interventi effettuati è premiante. Tant’è che le migliori quattro strutture a livello nazionale dove si muore di meno sono quelle che hanno effettuato più di 100 interventi in cinque anni.
Le note dolenti arrivano invece per gli anziani che entrano nei “grandi” ospedali dopo una frattura al collo del femore: le possibilità di varcare la soglia della camera operatoria entro 48 ore dal loro ricovero sono decisamente inferiori a quelle dei loro coetanei che entrano in ospedali con più piccoli volumi di attività. Solo il Rizzoli di Bologna riesce a operare poco più di sette pazienti su dieci nei tempi previsti (nella più piccola clinica Poliambulanza di Brescia, al primo posto tra le strutture con i migliori outcome, va sotto i ferri entro le 48 ore il 94,2% dei pazienti).

È questo in estrema sintesi il quadro sulle performance delle strutture con alti volumi di attività che Quotidiano Sanità ha tracciato, dopo aver fotografato l’attività di tutte le strutture italiane, piccole e grandi, valutate dal Programma nazionale esiti.
Un’istantanea dovuta, anche perché proprio questi “grandi” ospedali, nonostante compaiano spesso tra le strutture con outcome ragguardevoli a livello nazionale, altrettanto spesso ne sono rimasti fuori.
I motivi? Svariati e legati, come ha spiegato in un’intervista Carlo Perucci, direttore scientifico del Pne, al fatto che i dati devono essere interpretati sia alla luce delle conoscenze scientifiche disponibili, sia di molte variabili le quali non consentono una comparazione tra gli ospedali, come nel caso della mortalità per infarto, che a livello nazionale, mostra un sorpasso delle piccole strutture rispetto alle grandi.
Ma in altri casi l’assenza delle grandi strutture tra quelle con le migliori performance a livello nazionale, è sinonimo di evidenti “defaillance” organizzative, e spesso anche di una dispersione delle attività in un eccesso di reparti.
Comunque, andando a dipanare la matassa dei numeri dei grandi ospedali emergono sicuramente eccellenze, ma anche molte gravi criticità. Soprattutto si evidenzia, in alcuni casi, un gap incolmabile tra il Nord e il Sud del Paese: gli anziani che vivono in Emilia Romagna e Toscana hanno molte più opportunità di essere operati entro le 48 ore dal ricovero per frattura al femore di quante non ne abbiano i loro coetanei della Campania, dell’Abruzzo o della Sicilia. Per non parlare dei tagli cesarei: le donne che si rivolgono alle grandi strutture del Sud Italia, ricevono un trattamento ben diverso da quelle del centro Nord: troppo spesso possono dire addio al parto naturale.
Ma vediamo quali sono le performance delle strutture con grandi volumi di attività relative a 8 indicatori (quelli più significativi) sui 42 valutati in questa nuova versione del Pne (erano 32 nella precedente rilevazione) e riferiti per alcuni indicatori a 11 mesi del 2011.
 
Infarti, mortalità a 30 giorni. La Lombardia fa la parte del leone. Valore medio nazionale 10,28% (Vedi tabella).
Sul dato relativo alla mortalità per infarto a 30 giorni dal ricovero, i risultati sono sorprendenti. Guardiamo innanzitutto al volume degli interventi: in Italia in totale sono 123 le strutture che hanno effettuato più di 250 interventi i cui esiti sono stati valutati da Agenas negli 11 mesi del 2011.
Le migliori performance? La Lombardia fa la parte del leone: ben 6 ospedali figurano nella classifica delle prime dieci “grandi” strutture del Paese che vantano le migliori performance. Dall’Ospedale di Legnano (con esiti eccellenti pari al 4,7%) passando per il Civile di Vigevano, per il Monzino di Milano, l’Azienda ospedaliera di Vimercate fino agli Ospedali Riuniti di Bergamo e all’Ospedale di Desio il dato di mortalità rimane al di sotto del 6%.
Ma la palma la conquista la Toscana: l’ospedale San Giovanni di Dio Torregalli di Firenze ha la più bassa mortalità tra le grandi strutture ospedaliere osservate (il 4,6). Anche il Lazio ha il suo fiore all’occhiello: il Vannini si posiziona sul podio con una mortalità al 5,2%, su 356 interventi valutati. Bene anche la Liguria con le buone performance degli ospedali Riuniti di Lavagna.
E il Sud? L’unica “grande” struttura con esiti favorevoli è l’Azienda ospedaliera Villa Sofia di Palermo.
Ma passiamo alle dolenti note. Sei strutture su dieci con esiti sfavorevoli le troviamo nelle Regioni del Centro Sud. La “maglia nera” va al Policlinico Umberto I di Roma e all’Umberto I di Siracusa: il dato di mortalità arriva a quasi il doppio della media italiana (rispettivamente del 19,6 e del 19,5%), con un trend in peggioramento dal 2007 ad oggi per la struttura del Lazio. Al terzo posto nella lista figura una struttura del Nord: all’ospedale San Bassiano di Bassano del Grappa, in Veneto, il dato di mortalità arriva al 18,8%. Poco al di sotto di questa percentuale figurano l’Ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli e l’Ospedale Spaziani di Frosinone. Non va meglio al San Martino di Genova: il dato di mortalità su 497 interventi valutati supera l’asticella della media italica di quasi 6 punti percentuale. A stretto giro troviamo l’Azienda ospedaliero universitaria Vittorio Emanuele di Siracusa. Chiudono la lista delle ultime dieci strutture sotto la lente, il Maggiore di Novara e il San Matteo di Pavia.
 
By Pass aortocoronarico, mortalità a 30 giorni. Ottimi esiti nelle grandi strutture, ma in Campania si rischia. Valore medio nazionale 2,45% (vedi tabella)
Sono 26 in Italia le strutture che nel periodo sotto la lente dell’Agenas presentano un numero di interventi valutati superiore a 200. Il “palmares” lo conquista il Careggi di Firenze: hanno lavorato così bene da azzerare il dato di mortalità. Eccellenti anche gli outcome dell’Ospedale Mazzini di Teramo e della Clinica Villa Eleonora di Palermo. Tallonati dalla clinica privata accreditata Sant’Anna di Catanzaro, dalla Azienda ospedaliero universitaria di Parma e dal Lancisi di Ancona. Ottime le performance, conquistate dalla Clinica Ospedali Civili di Brescia, dall’AoUu Civile Maggiore di Verona e da quella di Trieste, anche se con un margine di errore statistico.
Decisamente preoccupante il dato osservato in due strutture della Campania, le percentuali di mortalità sono quasi 4 volte superiori alla media italiana: al Monaldi arriva al 9,1%, contro un dato medio del 2,45% (le performance di questa struttura presentano un trend in peggioramento dal 2010 ad oggi ), alla clinica Montevergine di Mercogliano all’8,9%. Anche il Policlinico di Tor Vergata presenta percentuali di mortalità doppie: arriva al 4,8% con una curva negativa rispetto al 2010. Con dati soggetti a un possibile margine di errore, troviamo poi l’Irccs di San Donato Milanese: 320 gli interventi valutati e un dato di mortalità del 4%.
 
Valvuloplastica, mortalità a 30 giorni. Alto tasso di decessi al Mauriziano di Torino. Valore medio nazionale 3,15% (vedi tabella)
Dal Nord al Sud troviamo strutture con performance degne di nota, ma anche dati preoccupanti. La migliore performance, tra le strutture con un volume di attività superiore a 200 interventi in 11 mesi, è del San Raffaele di Milano con un tasso di mortalità dello 0,6% su 666  interventi valutati. Struttura tallonata dalla Clinica accreditata Città di Lecce con uno 0,7% su 204 interventi effettuati. Ma anche nel Lazio (il Campus Biomedico di Roma), in Emilia Romagna (la Clinica accreditata Hesperia di Modena), in Veneto (il Civile Maggiore di Verona e l’Azienda ospedaliera di Padova), in Piemonte (la Clinica accreditata Villa Maria Pia) e nelle Marche (l’Ao Lancisi di Ancona) i tassi di mortalità non superano l’asticella del 2%.
Il primato negativo va invece al Mauriziano di Torino, dove il tasso di mortalità è doppio rispetto alla media nazionale. In fascia grigia (ossia con un dato suscettibile di errore statistico) troviamo otto strutture distribuite in maniera omogenea dal Nord al Sud.
 
Ictus, mortalità a 30 giorni. Regioni del Sud a rischio. Valore medio nazionale 11,61% (vedi tabella)
Per questo indicatore abbiamo preso in considerazione le strutture che hanno effettuato più di 250 interventi. Con la sola eccezione dell’Azienda Universitaria San Giovanni di Dio a Salerno - con il più basso dato di mortalità osservato su oltre 300 interventi effettuati tra le strutture con ampi volumi (4,1%) -, i migliori esiti si osservano tutti nelle regioni del Nord. L’Emilia Romagna si fregia di due strutture con dati di mortalità dimezzati rispetto alla media italiana (l’ospedale Guglielmo da Saliceto a Piacenza con il 4,5% e l’Azienda Ospedaliera di Parma al 5,1%). In Lombardia sono tre le strutture, capitanate dal San Raffaele, dove il dato di mortalità è al 5,1% (i dati crescono leggermente al San Carlo Borromeo di Milano e agli Ospedali Civili di Brescia rispettivamente con il 5,9 e il 6,4%). Buone anche le performance dell’Azienda ospedaliera di Perugia (5,5%). Sempre sotto la media italiana troviamo infine due strutture della Toscana, l'Area Aretina Nord di Arezzo e l'Azienda ospedaliero universitaria di Siena.
Preoccupanti gli esiti dell’Azienda ospedaliera di Cosenza con un dato di mortalità doppio rispetto alla media italiana. Stesso trend negativo anche in Puglia e in Sicilia dove nell’ospedale S Annunziata di Taranto e nell’azienda Villa Sofia di Palermo la mortalità tocca rispettivamente il 18,6 e il 16,5%.
 
Colecistectomie laparoscopiche con degenza post operatoria entro 3 giorni. Buone e “cattive” performance dal Nord al Sud. Valore medio nazionale 59,31% (vedi tabella)
Sinonimo di buone performance, questo indicatore assegna al Veneto, alla Basilicata e all’Emilia Romagna i migliori esiti tra le strutture che hanno effettuato più di 200 interventi di colecistectomie con dimissioni entro 3 giorni. Nell’ospedale per acuti di Legnano in Veneto, nell’Azienda ospedaliera San Carlo di Potenza e all’ospedale Ceccarini di Riccione rispettivamente il 94,4%, il 94% e il 93,8% dei pazienti viene dimesso in questo arco temporale. Ma anche in Campania all’Azienda ospedaliera dei Colli Monaldi di Napoli il ricovero per nove pazienti su dieci non supera i tre giorni. Ottimi anche gli outcome osservati in due Aziende ospedaliere piemontesi (al Santa Croce e Carle di Cuneo e al S. Antonio e Biagio di Alessandria), nella Clinica Poliambulanza di Brescia, in Puglia all’Irccs Casa del Sollievo a San Giovanni Rotondo, in Emilia Romagna all’Ospedale Civile di Sassuolo e al Careggi di Firenze. Tutte strutture dove le percentuali di pazienti dimessi in tre giorni vanno dall’88 all’85,5%.
Segno rosso in due Policlinici universitari. All’Umberto I di Roma e nell’azienda ospedaliero universitaria di Foggia meno di quattro pazienti su dieci riesce ad andare a casa nei tempi previsti (rispettivamente il 33,5% e il 33,8%). Le percentuali di dimessi crescono leggermente nell’Azienda ospedaliera di Perugia, ma si fermano al 36,6% di pazienti dimessi in tre giorni. Dati sotto la media anche all’Ospedale Santa Annunziata di Taranto, al Cardarelli di Napoli e al Ca Foncello di Treviso. In fascia grigia, ma sempre al di sotto della media nazionale, troviamo poi il Federico II di Napoli e tre strutture lombarde: il San Matteo di Pavia, il Ca Niguarda di Milano e il san Gerardo di Monza (le percentuali vanno dal 52,9 al 54,7).
 
Frattura del collo del femore nell’anziano intervento chirurgico entro 48 ore dal ricovero. Grandi strutture con esiti negativi concentrate al Sud. Valore medio nazionale 33,11% (vedi tabella)
Su questo indicatore emergono dati allarmanti. Gli anziani che vivono in Emilia Romagna e Toscana hanno molte più possibilità di varcare la soglia della camera operatoria entro 48 ore dal loro ricovero di quante non ne abbiano i loro coetanei della Campania, dell’Abruzzo o della Sicilia.
Innanzitutto in Italia in totale sono solo 14 le strutture, i cui volumi osservati e valutati, superano i 300 interventi. I dati ci parlano di una forbice molto ampia tra le best performance ed esiti decisamente sfavorevoli, per non dire “decisamente negativi”: si passa da circa sette pazienti su dieci operati entro due giorni al Rizzoli di Bologna (75,8%), a poco meno di un paziente su dieci (appena lo 0,4%) che varca la sala operatoria al Cardarelli di Napoli, una struttura che nel tempo ha addirittura peggiorato le proprie performance. Tutte le otto strutture con esiti favorevoli si collocano prevalentemente in Toscana (ben quattro) e in Emilia Romagna. Solo una in Liguria.
Quelle invece con esiti sfavorevoli (sei in totale) sono distribuite equamente tra il Centro Nord e il Sud. Poco più di un paziente su dieci va sotto i ferri all’ospedale Spirito Santo di Pescara e in Sicilia all’Ao Villa Sofia di Palermo. Stesso destino per meno di tre pazienti dell’Azienda ospedaliera di Perugia, del Gaetano Pini di Milano e del Policlinico di Trieste.
 
Mortalità a 30 giorni dopo intervento per tumore gastrico. Nei grandi ospedali si muore di meno. Valore medio nazionale 5,88% (vedi tabella)
In Emilia Romagna, nel Lazio, in Lombardia e in Puglia troviamo le strutture che hanno eseguito oltre 100 interventi, dal 2007 a oggi, con i più bassi tassi di mortalità registrati non solo tra le grandi strutture ma tra tutte le strutture, piccole e grandi quindi, presenti in Italia. Al Morgagni Pierantoni di Forlì e al Policlinico Gemelli di Roma i tassi di mortalità a 30 giorni non superano lo 0,9%. Si fermano all’1% quelli registrati al San Raffaele di Milano e nell’azienda ospedaliero universitaria di Bari. Va anche sottolineato che tutti i dati riferiti a queste aziende si collocano in fascia grigia. E sempre in fascia grigia con dati sfavorevoli troviamo l’Irccs dei tumori di Milano, dove la mortalità è doppia rispetto a quella nazionale (10% rispetto al 5,88). Ed anche il Careggi di Firenze dove il tasso di mortalità arriva al 7%.
 
Proporzione parti cesarei. Donne del Sud penalizzate. Valore medio nazionale 27,42% (vedi tabella)
Sotto la lente sono finite le strutture i cui volumi di attività superano i mille interventi (ricordiamo che sono stati valutati i parti cesarei primari). Come nel caso della frattura di femore è amplissimo il gap tra le strutture con esiti “esemplari” e quelle che si allontanano in maniera drammatica non solo dalla media europea (inferiore al 25%), ma anche da quella italiana.
E così le donne che si rivolgono alle strutture del sud dell’Italia, che eseguono più di mille parti in poco meno di un anno, ricevono un trattamento ben diverso da quelle del centro Nord: troppo spesso possono dire addio al parto naturale. Brilla l’ospedale Vittorio Emanuele II di Carate Brianza che su oltre 1.700 parti osservati ha una proporzione di cesarei di appena il 4%, tallonato dal Ca Foncello di Treviso con un 5,3% di primi parti cesarei sugli oltre 2mila valutati. Entrambe conquistano la palma delle performance più favorevoli a livello nazionale. E poi, con percentuali al di sotto del 9%, troviamo quattro strutture lombarde e due del Veneto. Le peggiori performance sono tutte localizzate nelle Regioni del Sud. Unica eccezione il San Martino di Genova in Liguria.
La "maglia nera" va alla clinica privata accreditata alla Clinica Villa Bianca di Napoli con poco meno di otto tagli cesarei su dieci parti effettuati (78,2%). Non va meglio nelle facoltà di medicina del Federico II, sempre a Napoli: la percentuale di cesarei si attesta al 60%. Esiti sfavorevoli poi in quattro strutture della Puglia, tre a Bari (la clinica Santa Maria, l’Ospedale di Venere e l’AoUu) e una a Taranto (Ss Annunziata). Figurano poi nell’elenco l’ospedale Ss Trinità di Cagliari, l’azienda ospedaliero universitaria Santo Bambino di Catania, e il Ss Annunziata di Chieti.
 
 

19 ottobre 2012
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