Il Dg d'Alba: “Un esempio concreto del nostro impegno nella fase più delicata della vita di una persona”
di L. C.
26 MAR - Grande soddisfazione da parte di
Fabrizio d’Alba, direttore generale dell’AO San Camillo-Forlanini di Roma, per la realizzazione del Pdta sul fine vita che punta a definire i diritti e garantire attraverso percorsi di cure condivisi tra operatori sanitari e cittadini, il rispetto della dignità per chi in strutture sanitarie ed ospedaliere si trova nella fase finale della vita. “E’ il primo modello in materia istituito in Italia. Sono assolutamente soddisfatto di questa fase di definizione, ora porremmo tutta l’attenzione necessaria affinché il Pdta sia applicato costantemente e puntualmente in tutti i casi previsti”.
Direttore D’Alba, come è nata l’idea di realizzare questo Pdta?
E un progetto molto importante perché facciamo entrare nella sfera professionale quelle scelte che, purtroppo, in molti casi, sono assunte sulla base del percepito o del vissuto individuale dei professionisti.
Vede, sul fine vita si tendono a registrare due atteggiamenti contrapposti da parte dei professionisti: da un lato può prevalere un certo buonismo che, per quanto guidato dai migliori sentimenti, rischia di non essere utile sul piano pratico; dall’altro si rischia, ad esempio nel caso di richiesta di donazione di organi, di considerare solo l’aspetto “tecnico” tralasciando tutto il turbamento emotivo che colpisce i famigliari nel caso di un decesso improvviso e tragico di un loro caro, solitamente anche giovane.
Il Pdta vuole riportare in un alveo chiaramente codificato il fine vita inteso non solo come istante precedente al decesso, ma come un percorso da costruire nel momento in cui ci si rende conto che la salute del paziente non può più migliorare e si rende necessario concentrare gli sforzi sull’accompagnamento alla morte attraverso le cure palliative. Tenendo ben in mente una cosa: il fine vita, per quanto possa essere un momento difficile, è sempre vita; e come tale va sostenuta in tutte le sue sfaccettature per garantire la dignità e il massimo benessere psicofisico del paziente.
Si tratta, dunque, di un percorso che non tiene conto solo degli aspetti clinici, e che per questo qualifica l’inserimento obbligatorio dello psicologo nell'équipe. Il dialogo su cui si basa l’intero Pdta, il rapporto e la fiducia che si instaura tra il paziente, la famiglia e gli operatori sanitari, diventano determinanti per garantire la migliore assistenza possibile e per permettere di compiere le migliori scelte sulla base delle condizioni cliniche. Pensiamo alla donazione di organi: lo psicologo aiuterà le famiglie a comprendere l’importanza di questa scelta che non è solo un vantaggio per il sistema salute, ma anche un valore aggiunto per la famiglia: gli studi dimostrano che la donazione di organi ha un impatto positivo sulle famiglie dei donatori.
Il Pdta rappresenta per il paziente l’opportunità di far valere le sue volontà?
Certo, perché su questioni così delicate i professionisti possono avere diverse convinzioni e punti di vista non necessariamente in linea con quelle del paziente. Come azienda non possiamo permettere che le idee di un professionista si traducano in diversi diritti e opportunità per i pazienti. Il Pdta risolve questo aspetto rendendo uniformi i comportamenti. Si chiarisce chi sono i pazienti che possono rientrare nel percorso, per caratteristiche e gravità di condizioni; chi deve essere informato; chi deve intervenire nelle decisioni e quali sono le scelte su cui è possibile intervenire.
È stata definito un modello che indica quali professionisti debbano intervenire e in quali fasi. Abbiamo anche voluto stabilire a chi spetti la decisione ultima nel caso in cui ci sia disaccordo tra i professionisti che concorrono alle scelte. Questo per evitare uno dei problemi più ricorrenti, che si verifica soprattutto con i pazienti oncologici, cioè il fatto che non vengano prese decisioni. Un errore molto grave, perché ritarda la possibilità del paziente di accedere a un percorso intra ed extra ospedaliero di cure palliative. Non possiamo permettere che i pazienti soffrano inutilmente per le nostre latenze.
Il Pdta porterà benefici anche sul piano dell’organizzazione del lavoro o rischia di essere un aggravio per i professionisti?
Nessun aggravio. Porterà dei benefici al singolo professionista, alle équipe e all’azienda nel suo insieme. Anzitutto perché parliamo comunque di situazioni stressanti dal punto di vista psicofisico e sapere come affrontarle, nonché affrontarle in équipe, rappresenta sicuramente qualcosa di positivo per l'operatore sanitario.
Inoltre ponga il caso di un paziente terminale che arriva in pronto soccorso. È un paziente che entra in una situazione già affaticata, dove i professionisti saranno probabilmente impegnati a gestire altri pazienti altrettanto gravi ma con maggiori probabilità di recupero. Questo non significa che il paziente terminale abbia bisogno di meno attenzione, bensì di una attenzione diversa. Al Ps il paziente terminale non potrà che sentirsi abbandonato, ma questo perché non è lì che dovrebbe trovarsi. Con il Pdta noi attiviamo, anche in PS, l’equipe di fine vita che prenderà in carico il paziente terminale orientandolo verso il percorso più idoneo alle sue condizioni.
Il Pdta, peraltro, non comporta neanche carichi burocratici. Anzi, sono convinto che una migliore organizzazione del lavoro e una codificazione dei processi passo per passo permettano addirittura di velocizzare gli eventuali adempimenti burocratici necessari.
Quindi sarà anche uno strumento utile per decongestionare i PS?
Quelli che si vedono in barella in tanti servizi di cronaca sui PS in tilt sono pazienti a bassa complessità. Tra loro ci sono i pazienti in fine vita. Quindi sì, stabilire una procedura per quei pazienti porterà dei benefici all'organizzazione del PS, oltre che ai pazienti, che riceveranno una risposta più veloce e adeguata alle loro esigenze.
Le équipe che saranno attivate saranno formate da personale non dedicato alle emergenze. L’équipe potrà quindi rivolgere al paziente terminale e ai suoi famigliari tutte le dovute attenzioni con tutto il tempo che sarà necessario, mentre i professionisti del PS potranno dedicarsi ai pazienti urgenti.
Contrasterà anche il burn out dei professionisti, nonché i contenziosi?
Certamente. Il Pdta e questo lavoro di équipe intervervengono profondamente anche sul benessere lavorativo dei professionisti. Nello specifico, per i professionisti che seguono il malato terminale, il fatto di essere un équipe, di avere con competenze differenziate, non solo tecniche ma anche psicologiche, rappresenta un grande valore aggiunto per la gestione di questi casi, che sono dolorosi per i pazienti e i famigliari ma anche per i professionisti che in qualche modo ne restano coinvolti.
Siamo certi che il Pdta aiuterà anche a ridurre i contenziosi, migliorando il dialogo con i pazienti, e di conseguenza riducendo le incomprensioni, e definendo con chiarezza gli ambiti di azione e le responsabilità.
Tutto questo gioverà al sistema, perché più i professionisti sono sereni più sono in grado di offrire efficienza e qualità.
Il San Camillo-Forlanini è finito più di una volta sulle cronache per qualche scandalo, come le criticità del PS o lo stato di abbandono di alcune aree. Nell’ultimo anno, però, ha ottenuto anche molti successi. Penso ad alcuni interventi straordinari, come quello di Sammy Basso, o al Pdta sul fine vita. Qual è, in definitiva, lo stato di salute dell’Azienda?
Come tutti i casi in cui si attivano percorsi di miglioramento, purtroppo non si riesce a sistemare tutto, quanto meno non in poco tempo. Ma l’Ao San Camillo-Forlanini non resta certamente ferma. Siamo impegnati a migliorare l’attività assistenziale così come a risanare i bilanci. Abbiamo chiare le direttrici del cambiamento, ma la nostra è una organizzazione complessa e, come ogni organizzazione complessa, è esposta a momenti di criticità.
Mi riferisco alla massa di lavoro e ai tanti casi di alta complessità che gestiamo e che ci arrivano anche dalle reti a bassa complessità del territorio. Questo è il nostro punto di forza ma è anche il nostro tallone di Achille, perché le sale d’aspetto del nostro PS e aree di degenza si riempiono di pazienti che, se pure fragili, hanno bisogno di cure di bassa complessità.
È importante che sia data visibilità a tutto il buono che produciamo. Non perché vogliamo nascondere le nostre criticità, ma perché i cittadini devono sapere che dietro quella criticità spesso c’è la presa in carico di una complessità assistenziale elevatissima. Devono sapere che siamo in grado di offrire livelli di cure tra i migliori al mondo. E devono comprendere che anche loro possono fare molto per migliorare l’efficienza del nostro sistema attraverso percorsi di cura più appropriati.
L. C.
26 marzo 2019
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