La cooperazione sia a livello nazionale che internazionale, la multidisciplinarietà, la collaborazione tra ricercatori, medici, istituzioni, aziende biotech e associazioni di malati: questo è quello che nel tempo ha fatto della ricerca sulla distrofia muscolare di Duchenne e Becker il modello da seguire nell’ambito delle malattie genetiche rare. Questa è anche la sottotrama, il fil rouge che ha attraversato tutte le giornate di questa XI Conferenza Internazionale sulla distrofia muscolare di Duchenne e Becker, organizzata da Parent Project (
segui qui la diretta web), che si conclude oggi a Roma.
Abbiamo chiesto a
Eugenio Mercuri, del dipartimento di Neuropsichiatria del Policlinico Agostino Gemelli, come la collaborazione, soprattutto con le associazioni di pazienti e delle famiglie, abbia fatto la differenza sia nella presa in carico del paziente, che nella ricerca scientifica vera e propria. “Ad oggi alla base del trattamento di un paziente affetto da distrofia di Duchenne c’è una collaborazione multidisciplinare: la diagnosi avviene non dopo i 4-5 anni, e subito i pazienti vengono presi in carico da un neuropsichiatra o da un neurologo, a capo di un’équipe multidisciplinare formata da fisioterapisti, pneumologi, cardiologi. Ma se alla base dei passi in avanti fatti negli ultimi anni c’è anche la creazione di un network di professionisti e di attori interessati, molto di questo si deve alla presenza e all’azione delle associazioni dei pazienti”, ci ha detto. “Proprio grazie a questo sforzo congiunto abbiamo compreso meglio le difficoltà che i bambini stessi affetti da distrofia di Duchenne incontravano durante la crescita e quindi quello di cui avevano bisogno: così la qualità della vita e l'aspettativa sono migliorate, e siamo riusciti a ‘prevenire’ alcuni sintomi, ovvero a non farli presentare affatto, o almeno a ritardarli. Abbiamo capito meglio come riconoscere i problemi articolari, respiratori o cardiologici, e la cura è diventata più omogenea: se prima tutto ciò avveniva solo in pochi centri, nel tempo le associazioni hanno cercato di creare un network e pubblicizzare ovunque l'implementazione degli standard di cura e una corretta informazione ai genitori, sia sulla malattia che sulle complicanze”.
Ma non solo. “Sempre grazie alla collaborazione tra istituzioni, professionisti e associazioni, in particolare Parent Project stessa con l’aiuto di Cittadinanzattiva, si è riusciti a promuovere un percorso di censimento delle reali capacità dei centri, un loro monitoraggio. Quello che si chiama un percorso di audit pubblico”, ha continuato. “Il tutto, chiaramente è stato effettuato con spirito propositivo: lo scopo non era fare una classifica di chi fa meglio e di chi fa peggio, ma era quello di comprendere le criticità che ancora esistono nella cura e nella presa in carico del paziente, identificare come e dove si può fare meglio, mappare i centri per indirizzare meglio i pazienti a livello locale. Uno strumento nato dalla collaborazione di più attori e che torna utile a più attori: i medici, i ricercatori, le famiglie, la società tutta”.
E che aiuta anche a ‘uniformare’ la cura, anche grazie alla mappatura. “Laddove si tendeva ad agire in maniera esodata – ha spiegato Mercuri – ora si agisce in rete, con standard di cura e di controllo uguali. Ciò aiuta anche nella ricerca: quando le malattie sono rare come la distrofia di Duchenne, usare gli stessi strumenti può facilitare la cura”.