20 ottobre -
Fino a qualche anno fa si chiamava medicina ‘su misura’ o ‘sartoriale’; oggi più correttamente si parla di ‘medicina di precisione’, ma alla base c’è sempre lo stesso concetto: la personalizzazione della diagnosi e dei trattamenti con l’ausilio della genetica. E’ la grande speranza di anticipare il futuro, delle malattie o della risposta ad un trattamento, con tutto quello che ne consegue per la salute del paziente e delle casse dello Stato. Concetto questo trasversale a diversi ambiti della medicina, compreso il diabete sul quale, inevitabilmente, si concentrano molti interessi. In tutto il mondo sono numerosi i gruppi di ricerca che si occupano con pazienza certosina di leggere nella sfera di vetro della genomica la risposta ai mille quesiti della medicina clinica, sul fronte della diagnosi come in quello del trattamento. La capacità di risposta ad un farmaco infatti, sia in termini di efficacia che di effetti collaterali, dipende da una serie di fattori anche genetici. Ma, nel caso dei farmaci anti-iperglicemizzanti, la quota parte di risposta che dipende dagli aspetti genetici che oggi i ricercatori sanno analizzare è troppo modesta per avere un impatto clinico. Almeno per ora.
E anche al congresso ‘Panorama Diabete’ organizzato dalla Sid a Riccione si parla delle ultime novità in tema di farmacogenomica. Ma in versione ‘doccia fredda’ e con l’imperativo categorico di non cadere nei facili entusiasmi e di lasciare ancora questa materia nelle prudenti mani degli esperti. “Interpretare gli studi di farmacogenomica, anche nel campo del diabete – ammonisce con fermezza Vincenzo Trischitta, dipartimento di Medicina Sperimentale dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma e Laboratorio di Ricerca Diabetologica ed Endocrinologica, Irccs ‘Casa Sollievo della Sofferenza’, San Giovanni Rotondo (Foggia) – è una faccenda molto seria. Le risposte che abbiano acquisito finora non sono tali da poter impattare in modo significativo l’attività clinica quotidiana. Anche se la speranza di tutti naturalmente è che questi studi, negli anni a venire, possano acquisire una rilevanza clinica. In questo momento però abbiamo in mano solo informazioni ‘pre-cliniche’. Preziose per i ricercatori perché permettono di gettare luce sui meccanismi alla base delle malattie o nel dare ispirazione per costruire nuove terapie. Meno utili per i medici, perché in questo momento non danno alcun vantaggio, tranne rarissimi casi, nella cura dei pazienti.
Insomma, non è ancora arrivato il momento – ribadisce Trischitta – di utilizzare nell’ambulatorio del medico tutte le informazioni genetiche acquisite finora sulla risposta ai farmaci per il diabete. E a maggior ragione, andare a buttar via soldi per fare delle analisi genetiche, la cui offerta è sempre più pressante sul mercato, non ha veramente senso”. Ma intanto qualcosa comincia a muoversi e le promesse della farmacogenetica, anche se in ambiti ristretti, cominciano a concretizzarsi.
L’esempio perfetto di farmacogenetica applicato al diabete. Sono studi degli ultimi 10 anni quelli che hanno portato a scoprire una forma rarissima di diabete dei neonati: si chiama ‘Diabete Mellito Neonatale Permanente’ (DMNP), colpisce meno di un bambino su 500mila e compare entro i 6 mesi di vita. Non ha nulla a che vedere con il diabete di tipo 1, nel quale il pancreas viene distrutto da una risposta autoimmune, e si può trattare solo con l’insulina. I neonati con DMNP hanno infatti tante beta cellule, tanta insulina, ma non riescono a secernerla, perché hanno un ‘blocco’. Questa rara forma di diabete dipende infatti da una puntiforme ‘distrazione’ – un errore di battitura – della natura (è una delle poche forme di diabete monogenico finora riconosciute) che porta a danneggiare una proteina indispensabile per la corretta secrezione d’insulina da parte del pancreas, in quanto parte integrante di speciali ‘canali’ (del potassio) presenti sulle cellule produttrici di insulina. I piccoli pazienti possono presentare un ritardo di crescita, complicanze neurologiche e possono arrivare rapidamente al coma diabetico, se non riconosciuti e trattati. Fino a qualche tempo fa, anche in assenza di autoanticorpi, li si considerava come dei ‘tipo 1’ e li si trattava dunque con l’insulina per tutta la vita. L’individuazione di questo difetto, nascosto nelle pieghe del cromosoma 6, ha portato a scoprire che una delle proteine responsabili della malattia è la stessa che consente di funzionare alle sulfaniluree (vecchi farmaci orali per il trattamento del diabete di tipo 2), perché funge da loro recettore sulla cellula beta pancreatica.
Il ‘difetto di fabbrica’ di almeno metà di questi piccoli con DMNP sta nei geni KCNJ11 e ABCC8 che codificano due proteine (rispettivamente Kir6.2 e SUR1) facenti parte dei canali del potassio, che consentono la secrezione di insulina da parte del pancreas. “Questa mutazione – commenta Trischitta – insiste su una proteina per la quale avevamo già a disposizione il farmaco giusto, la sulfanilurea, usata da diversi decenni nel trattamento del diabete di tipo 2”. La scoperta ha avuto un’importante ricaduta sulla terapia di questi bambini perché ha permesso di traghettarli dalla terapia iniettiva con insulina a quella orale con sulfaniluree, dopo aver posto la corretta diagnosi con un test genetico. La scoperta dei geni difettosi alla base di questa forma di diabete è del professor Andrew Hattersley dell’Università di Exeter (UK): un’enorme storia di successo per questi piccoli, diverse centinaia per ora in tutto il mondo, e per le loro famiglie.
Gli studi in corso nel diabete di tipo 2
Le proteine che ‘traslocano’ la metformina. “Uno dei guru della farmacogenetica applicata al diabete di tipo 2 – ricorda Trischitta – si chiama Jose Florez e lavora a Boston, presso la Harvard Medical School”. Florez si avvale di un’importante casistica americana sulla predizione del diabete per testare l’impatto dei polimorfismi genici sulla risposta a farmaci antidiabetici di uso comune, quali la metformina. Anche in questo caso si stanno accumulando tante informazioni preziose. La metformina, farmaco importantissimo per il trattamento del diabete di tipo 2, viene utilizzata dall’organismo grazie al corretto funzionamento di una serie di ‘trasportatori’ che la veicolano dall’intestino al sangue e da qui al fegato (dove esercita nell’epatocita la sua azione terapeutica prima di essere ‘disattivata’) e ai reni, dai quali viene eliminata. Ogni segmento di percorso dipende da una proteina che ‘trasporta’ la metformina. Florez è andato a studiare come queste proteine ‘trasportatrici’ modulino la risposta al farmaco, scoprendo che in effetti la variabilità genetica di alcune di esse svolge un ruolo importante.
I geni che predispongono al diabete e che influenzano la risposta ad alcuni farmaci. Il gene TCF7L2 è quello individuato come il più importante nel conferire una predisposizione al diabete di tipo 2. Un gruppo di ricercatori scozzesi ha dimostrato che questo stesso gene modula una diversa risposta del paziente al trattamento con le sulfaniluree.
Il gene IRS1 è invece un ‘traduttore’ importante del messaggio dell’insulina a livello delle cellule bersaglio. Una mutazione particolare di questo gene oltre a conferire un aumentato rischio di sviluppare il diabete di tipo 2, modula anche l’efficacia della terapia di associazione con metformina e sulfanilurea. “La prima osservazione in merito – ricorda Trischitta – è stata fatta dal gruppo del professor Giorgio Sesti, dell’Università di Catanzaro; noi recentemente abbiamo confermato il dato in una casistica più ampia, caratterizzandolo anche nei suoi dettagli fisiopatologici.
20 ottobre 2015
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