Medico, 67 anni, “presidente per regolamento”. Così si definisce
Giuseppe Zuccatelli, nominato presidente “facente funzione” dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), in quanto membro più anziano del Consiglio di amministrazione, per sostituire alla presidenza Renato Balduzzi, ora ministro della Salute.
Un incarico a scadenza, dunque, tanto più che il CdA dovrà essere rinnovato alla fine del prossimo mese di marzo, avendo una validità di cinque anni ed essendo in carica dal marzo 2007. Già confermato, invece, il direttore
Fulvio Moirano, che proprio
l'altro ieri ha visto accolta dalle Regioni la proposta del suo rinnovo da parte di Balduzzi.
Intanto, in questi primi mesi del governo Monti, l’Agenas è stata messa in discussione in diverse occasioni e proprio Zuccatelli ha dovuto difenderne la funzione, inviando a
Enrico Giovannini, presidente della Commissione per il livellamento retributivo Italia-Europa, un documento che
presentiamo in anteprima e che riassume i compiti dell’Agenzia e compie un sintetico confronto con realtà similari presenti in altri paesi europei, in particolare Austria, Francia, Germania, Spagna, Belgio, Paesi Bassi, Regno Unito e Svezia.
Nomina a tempo, ma idee molto chiare, quelle di Zuccatelli che, in questa intervista, affronta i nodi del sistema sanitario alle prese con la crisi economica. Dai tagli imposti dalle ultime manovre, alle difficoltà delle Regioni in disavanzo. E da qui iniziamo la nostra conversazione.
Professor Zuccatelli, uno dei compiti più delicati dell’Agenas è quello di affiancare le Regioni sottoposte a Piani di rientro. Come stanno andando le cose?
Bisogna distinguere tra le Regioni in Piano di rientro e quelle Commissariate. Tra queste ultime l’Agenas ha dato il suo contributo ad Abruzzo, Campania e Calabria, soprattutto per programmare interventi rivolti a ridurre l’inappropriatezza e ridefinire la rete ospedaliera. Mi sembra che questo contributo abbia funzionato e funzioni. La Regione Lazio invece, come anche il Molise, non ha mai chiesto di potersi avvalere di questo apporto.
Lei stesso è stato, per circa un anno e mezzo, subcommissario in Campania. Che bilancio può fare di questa esperienza?
L’esperienza è positiva, ma il problema è che bisognerebbe avere una maggiore possibilità di esercitare i poteri di sub commissario.
Mi faccia capire meglio.
Le persone che devono intervenire in una situazione di bilanci così disastrati da essere commissariata non possono essere scelte ancora una volta dalla giunta regionale e quindi dalla politica. O il sub commissario partecipa insieme al commissario ad acta alla definizione del gruppo dirigente che deve sanare la situazione, oppure non si può fare molto. Il sub commissario deve avere strumenti adeguati: un pool operativo, risorse dedicate da poter utilizzare.
C’è un lungo dibattito che riguarda la nomina dei Direttori Generali. Una posizione molto netta è stata espressa più volte da Enrico Rossi, oggi presidente della Toscana, che ha sempre rivendicato alla politica la responsabilità di nomina. La sua posizione mi sembra assai distante da questa.
No, quando i conti sono in ordine io condivido pienamente la posizione di Rossi. Ma quando la situazione è di enorme deficit, tale da far intervenire lo Stato centrale per il commissariamento, mi sembra assurdo che le nomine siano fatte ancora dalla stessa giunta politica. In situazioni di crisi grave, c’è bisogno della presenza di tecnici che assumono funzioni di governo, in analogia con quello che sta facendo il Governo Monti a livello nazionale.
Quindi lei è contrario anche alla nomina del presidente regionale come commissario ad acta?
La legge costituzionale del 2001 non prevedeva di assegnare il compito del commissario ad acta al presidente regionale, questa regola è stata introdotta da una legge ordinaria. Ma se la giunta e il presidente hanno determinato il disavanzo, come si può pensare che siano loro a guidare il risanamento?
Pensa che l’Agenas sarà coinvolta nella stesura del nuovo Patto per la Salute?
Noi siamo a disposizione, tanto del ministero quanto delle Regioni. Crediamo di poter essere utili, con le nostre competenze. La grande partita però è quella delle risorse: nel 2012 si può ancora, con fatica, riuscire a tenere in piedi il Ssn, ma le risorse fissate per il 2013 e 2014 sono assolutamente insufficienti.
Per questo, come ripete sempre il ministro Balduzzi, bisogna insistere sul tema dell’appropriatezza, dotando di strumenti incisivi le organizzazioni sanitarie regionali.
C’è chi dice che una maggiore appropriatezza potrebbe produrre risparmi tra 1,5 e 3 miliardi l’anno. Sono valutazioni attendibili?
Sì, ma anche in questo caso si impatta con la politica. Se in un territorio si mantiene un ospedale, che non è mai stato tale, ma che risponde alla richiesta di un sindaco o di un assessore lo spreco è evidente. Con interventi forti in questo senso si possono ottenere quei tre miliardi di risparmi e forse anche qualcosa in più. D’altra parte in alcune Regioni si è già fatto. L’altro settore su cui intervenire è quello del personale.
In Italia vi è una produzione (e quindi un consumo) in eccesso di tutto: dai ricoveri, alle prestazioni di specialistica ambulatoriale, ai farmaci. Semplici analisi comparative tra le Regioni e dentro le Regioni (ma anche tra i medici di medicina generale ed i reparti di uno stesso ospedale) evidenziano con chiarezza grandi disomogeneità tra virtuosi e inappropriati. In tale ambito ricadono molte delle risorse che mancano.
Ci troviamo ad operare in un sistema in cui prevale l’autoreferenzialità. Il modo classico di esprimersi dei professionisti si sintetizza in: “ho sempre fatto così” e “nella mia esperienza ha funzionato”; sono frasi spesso portate a giustificazione di comportamenti inappropriati. Vanno promosse invece la revisione tra pari e la verifica esterna per togliere peso all’autoreferenzialità e stimolare l’analisi ed il confronto critici quali momenti di crescita professionale.
Mi faccia un esempio di come si può risparmiare intervenendo sul personale sanitario.
Quando sono stato operato di appendicectomia nel 1960 a seguirmi c’è stato un solo medico, che era insieme medico della mutua, specialista e chirurgo. Negli anni ’70 la pletora medica ha portato ad un moltiplicarsi dei ruoli medici: medico di famiglia, medico della Continuità Assistenziale, specialista ambulatoriale, ospedaliero e universitario. E può succedere che su un singolo caso di appendicite intervengano tutti e cinque questi ruoli. E oltretutto con minori controlli, visto che negli anni ’60 le mutue sospendevano i medici per iperprescrizione, mentre oggi questo non avviene quasi mai.
Intervenire sul personale vuol dire licenziare?
No, è sufficiente non coprire il turn over e utilizzare meglio il personale disponibile. Faccio ancora un esempio, relativo alla diagnostica per immagini. La digitalizzazione oggi permette di refertare anche a distanza: un piano nazionale di teleradiologia consentirebbe di recuperare un mare di risorse, visto che il 70% della radiologia tradizionale può essere fatta da un tecnico di radiologia senza la presenza del medico. E concentrando i radiologi in pochi centri. Ovviamente i professionisti sono contrari, ma siamo davanti a scelte che non si possono più rinviare.
Insomma, gli ostacoli ad una razionalizzazione del sistema sanitario, a suo parere, sono la politica e i professionisti?
Siamo arrivati all’osso e quando si arriva lì, si sente dolore. Ma è necessario intervenire se si vuole salvaguardare il servizio sanitario pubblico e universalista e per questo ci vuole un patto con i professionisti. Le Regioni e il ministero della Salute devono chiamarli a un tavolo e dire: “Signori, le chiacchiere stanno a zero. Perché oggi il rischio è perdere il servizio sanitario pubblico”.
Un primo passo positivo, a mio parere, è la sospensione della cosiddetta intramoenia allargata. Occorre far rientrare in ospedale i medici ospedalieri evitando situazioni ambigue. O dentro o fuori. L’ospedale deve favorire la libera professione intramoenia nei modi leciti ed etici che le normative consentono.
Abbiamo poco tempo, la partita ormai è troppo seria per consentire il “buonismo”.
Eva Antoniotti