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Lo stigma della “residenzialità” psichiatrica

di Emilio Robotti

02 DIC - Gentile Direttore,
il compito delle Comunità Terapeutiche Psichiatriche è in genere quello di “liberare” il paziente psichiatrico. Dall’inizio della pandemia, il Servizio Sanitario Nazionale chiede loro di “trattenere” il paziente al loro interno, di farlo “uscire” il meno possibile. La richiesta è curare e riabilitare, limitando i contatti con l’esterno, contatti che, insieme alla psicoterapia ed alla riabilitazione, hanno dimostrato di poter superare l’esperienza del manicomio.

La richiesta di “rinchiudere” i pazienti, di limitarne i contatti con l’esterno, fonda su palesi esigenze di prevenzione del contagio, che riguardano non solo la residenzialità extra ospedaliera psichiatrica, ma proprio tutti, sani, malati, curanti e curati.

Viviamo un momento in cui è necessario ripensare l’intero Servizio Sanitario Nazionale, che con l’esperienza pandemica ha evidenziato la debolezza e disomogeneità delle risposte ai cittadini.
Nel ripensare l’assistenza psichiatrica in questo nuovo contesto, a livello istituzionale, la residenzialità psichiatrica non viene praticamente considerata, se non in senso negativo, accentuando un processo di marginalizzazione in atto già da tempo in nome di nuovi mantra: domiciliarità e budget di salute .

Negli ultimi anni abbiamo assistito a diversi tentativi regionali e nazionali, di “declassare” le strutture residenziali psichiatriche trascinandole per decreto dal settore socio sanitario ad elevata integrazione sanitaria al magma del settore socio sanitario extraospedaliero dove la politica sanitaria è fatta di riduzione delle tariffe, dell’incremento degli standard strutturali (omologati ai parametri ospedalieri), di diminuzione degli standard di personale (eliminando psicoterapeuti, psichiatri, psicologi, a favore di infermieri e operatori sociosanitari).
 
Lo scenario che si prospetta vede  da un lato pochissime strutture molto “medicalizzate”, molto simili alle case di cura neuropsichiatriche, con i loro assetti paraospedalieri, e dall’altro lato strutture con poco personale e basse tariffe, che dovrebbero inserirsi in un servizio territoriale integrato che ancora non esiste in quasi nessuna realtà regionale. Una residenzialità psichiatrica che sostanzialmente rappresenta, molto semplicemente, uno strumento di outsourcing di servizi a costo ridotto.

Le strutture accreditate la cui mission è la (psico-socio)terapia residenziale, come previsto dai diversi Progetti Obiettivo Tutela Salute Mentale, sono pronte a partecipare alla riprogettazione dell’assistenza psichiatrica in chiave più conforme ai tempi attuali attraverso le loro rappresentanze come FENASCOP, ma non riescono ad essere presenti sui tavoli regionali, tanto da dover ricorrere ad estenuanti battaglie giudiziarie davanti al Giudice amministrativo verso i provvedimenti regionali che ne mortificano la funzione. Battaglie giudiziarie che ormai hanno costruito una giurisprudenza importante, che continua ad essere ignorata a livello istituzionale, dove vengono riproposti gli stessi provvedimenti con lievi modifiche per farli sopravvivere il tempo di vita di una Giunta regionale prima che il Giudice li annulli definitivamente.

Non è accettabile che la residenzialità psichiatrica, le Comunità Terapeutiche (oggi non a caso ricondotte in modo indifferenziato a freddi acronimi come SRP1-2-3 secondo la classificazione AGENAS) istituite dopo la Legge Basaglia per ridare dignità a persone internate nei manicomi e ad oggi evolute secondo modelli di cura riconosciuti e validati a livello internazionale, continuino ad essere ignorate a livello governativo, o nelle Agenzie come Agenas.

Commissioni e gruppi di lavoro ministeriali, vedono con fastidio la presenza di una rappresentanza della residenzialità psichiatrica come FENASCOP, che peraltro, dalla sua fondazione nel 1993, continua a crescere in rappresentatività, autorevolezza anche scientifica, essendo anche provider accreditato ECM dall’inizio dell’obbligo formativo per le professioni sanitarie.

Grazie alla residenzialità psichiatrica, molti pazienti sono stati, dopo la Legge Basaglia, letteralmente tolti dai sottoscala o dalle stanze piene dei loro escrementi dei manicomi per riportarli ad una condizione di umana dignità in strutture che, progressivamente, seguendo l’evoluzione normativa, culturale e scientifica, si sono organizzate diventando perno di un intervento clinico-riabilitativo che ha dato, innegabilmente, risultati importanti.
 
Occorre poi dirlo con il necessario vigore: senza le strutture residenziali il sistema, oggi e nemmeno domani, non reggerebbe e la cura dei pazienti psichiatrici si scaricherebbe su famiglie sempre più disgregate, ulteriormente stressate dalla pandemia che disgrega ed allarga la forbice delle diseguaglianze, incapaci di sostenerne il peso nella gestione quotidiana.

Avv. Emilio Robotti
Presidente Nazionale FENASCOP


02 dicembre 2020
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