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Coronavirus, la fase acuta è regredita: riapriamo le porte dei reparti ai parenti

di Raffaele Varvara

15 LUG - Gentile direttore,
seppur con il nuovo DPCM poco è cambiato, possiamo dire che la fase acuta del Covid-19 è alle spalle. Pian piano, pur con le dovute precauzioni, stiamo tornando alla vita normale. Tuttavia, in gran parte delle strutture ospedaliere d’ Italia, le porte delle unità operative, rimangono ancora chiuse alle visite dei parenti. L’accesso di famigliari e visitatori è ancora considerato pericoloso e, quindi, rimane interdetto. Queste politiche restrittive sono motivate dal timore riguardo al rischio di riesplosione del contagio. Tuttavia queste paure sono irrazionali e infondate, se pensiamo che al di fuori dell’ospedale tutto è tornato alla normalità.
 
Negli ospedali della penisola spuntano regolamenti che applicano diverse gradualità di limitazioni: ci sono strutture che interdicono totalmente le visite dei parenti anche di pazienti critici e/o terminali, altre che impongono limitazioni alle visite dei familiari sia sul versante del numero di visitatori ammessi, sia su quello del tipo di visitatori (sono ammessi solo famigliari più stretti), sia sul tempo per la visita (massimo 10 minuti). Altre strutture concedono visite più prolungate per pazienti critici e/o in fine-vita.
 
Al momento del ricovero, dunque, i nostri pazienti vengono letteralmente sottratti agli affetti dei famigliari e rinchiusi nelle loro camere di degenza. Queste limitazioni fanno sì che il paziente sia completamente spersonalizzato, come se privarlo della sua dimensione relazionale fosse un normale prezzo da pagare in cambio di terapie volte alla guarigione, in tempo di (post) Covid.
 
Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione dei sanitari sul tema umanizzazione delle cure, perché si è capito che laddove si instaura un adeguato “triangolo relazionale” tra curanti, pazienti e familiari, si abbassano i contenziosi legali. Un esempio su tutti è la rivoluzione copernicana delle terapie intensive aperte. Poi è bastato un virus a farci fare un balzo indietro di 20 anni, a ulteriore riprova che l’ospedale rimane una delle grandi invarianze della società moderna.
 
Sono tante ancora le resistenze culturali riguardo alla presenza di famigliari percepiti come un ostacolo all’assistenza. Tuttavia, in molti casi, la presenza del caregiver è una valida risorsa per l’assistenza medico-infermieristica. Il familiare contribuisce alla garanzia del bisogno di sicurezza del paziente o al bisogno di mobilizzazione e alimentazione nonchè alla raccolta dati anamnestica. Inoltre numerosi dati della letteratura scientifica suggeriscono che la presenza di famigliari e visitatori riduce in modo significativo le complicanze cardio-vascolari e gli indici ormonali di stress (1).
 
In conclusione, se durante la fase acuta della pandemia le limitazioni all’accesso dei famigliari era una misura emergenziale e straordinaria per impedire l’espandersi del contagio, adesso bisogna tornare alla normalità, anche in ospedale. Il paziente ha diritto a essere accompagnato, nel tempo della malattia, dalle persone per lui più significative.
 
La presenza dei famigliari accanto ai nostri assistiti non è una sorta di “concessione”, ma rappresenta una scelta utile e motivata, una risposta efficace ai bisogni del malato e della sua famiglia. Questa scelta esprime il rispetto e l’attenzione dovuti al paziente e alla sua dignità di essere umano. Invito le associazioni dei pazienti a muoversi in class action per rivendicare un loro diritto. Da parte di “Infermieri In Cambiamento”, il massimo appoggio.

 
Raffaele Varvara
Infermieri in Cambiamento
 
1) Fumagalli S. et al. Reduced cardiocirculatory complications with unrestrictive visiting policy in an intensive care unit: results from a pilot, randomized trial. Circulation 2006;113:946-52).

15 luglio 2020
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