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Il problema della sanità italiana non sono i pochi posti letto nelle terapie intensive

di Giuseppe Chesi

15 GIU - Gentile Direttore,
le scrivo per rimarcare alcune criticità che a mio giudizio sono emerse durante la fase dell’Emergenza COVID, ma che ben pochi hanno sottolineato, sia in ambito politico che in ambito sanitario. Si è parlato molto di terapie intensive, di moltiplicarne i posti, di moltiplicarne gli addetti, sono stati messi in piedi nuovi ospedali, poi rapidamente chiusi per mancanza di pazienti. Da parte delle istituzioni sanitarie sono stati promessi più posti in terapia intensiva (ormai mezze vuote), in Pneumologia ed in Malattie Infettive, ma poco si è parlato del territorio.
 
E’ stato puntato il dito verso la gestione delle residenze per anziani, ma nessuno ha valutato quali potrebbero essere le misure per migliorarne i livelli assistenziali, compatibili con i costi da sostenere. Molteplici voci si sono levate, spinte prevalentemente dalla forza della emotività, ma poche sono state le analisi razionali fatte per cercare di individuare in maniera costruttiva i punti di debolezza del sistema ed introdurre i possibili correttivi.
 
Da medico che per anni ha esercitato la sua professione sia in ambito clinico che in ambito organizzativo in qualità di Direttore di una Dipartimento Internistico mi pare di potere dire che l’ anello più debole nel contrasto alla pandemia sia stato proprio il territorio. La sua organizzazione, troppo basata su una medicina di famiglia individualistica e priva di una reale catena di comando, non poteva essere nelle condizioni di contrastare efficacemente questo  fenomeno nuovo ed imprevedibile. Nella prima fase infatti molti medici di medicina generale specie nelle aree più colpite sono stati contagiati nell’ esercizio della loro attività e successivamente, preso atto della pericolosità del virus, hanno giustamente fatto un passo indietro passando ad una attività prevalentemente svolta a distanza tramite telefono e PC.
 
Prima che si attivassero ambulatori COVID nel territorio, l’onda di piena si è così quasi esclusivamente riversata sugli ospedali dove il grosso dell’impatto, contrariamente a quando proclamato dai media è stato svolto dai reparti che più sono radicati sul territorio e cioè dalle UO di Medicina Interna, che sarebbero sì da potenziare!
 
Questa pandemia, a mio giudizio, senza che si voglia mettere in discussione la professionalità dei singoli medici di famiglia, ha messo in evidenza come la organizzazione territoriale sia inadeguata rispetto alla evoluzione socioeconomica avvenuta negli ultimi anni nella nostra società. Un medico di famiglia, quale quello degli anni Ottanta, che, effettivamente, poteva essere il punto di riferimento per i diversi nuclei famigliari che gli erano assegnati,  oggi non può più  esserlo. In quanto questo non è ragionevolmente possibile in una società  nella quale spesso tutti i membri dei nuclei familiari lavorano, dove si sono moltiplicati gli anziani soli ed i malati polipatologici e la complessità della medicina in tutte le sue branche è esplosa. A mio giudizio è questo il tempo di nuclei di medici, vere medicine di gruppo, che gestiscano poliambulatori almeno H12 ai quali afferisca la popolazione di una area territoriale in maniera proporzionale al n° dei componenti l’ equipe dell’ ambulatorio. 
 
Medici strutturati in maniera gerarchica con una precisa definizione delle responsabilità e con un responsabile ultimo  che abbia in capo la struttura organizzativa , i turni ed i compiti di ciascuno, gestiti in maniera dinamica e flessibile e così in grado di rispondere più velocemente ed efficacemente ai vari scenari sanitari ed epidemiologici che si dovessero presentare. 
 
Medici che lavorino in equipe con scambio di idee, opinioni, con un programma formativo permanente basato sulla revisione sistematica delle situazione e dei casi clinici più problematici. Gruppi di medici che sappiano gestire anche una prima diagnostica (ecg, spirometria di base, alcuni esami ematici strutturati in point of care,ecografia semplice bedside,etc.). Penso che solo in questa maniera il territorio potrà essere in grado di dare risposte appropriate nelle diverse situazioni ed alleggerire così anche il carico sulla medicina ospedaliera, anch’ essa peraltro da riformare.
 
Un gruppo di medici che faccia una medicina di iniziativa, intercettando le situazioni a rischio e sappia mantenere e trattare a domicilio i tanti anziani polipatogici che spesso, ospedalizzati, sono oggetto delle più svariate complicazioni e, non di rado, fermati a letto, possono perdere la poca residua autonomia. In questo sistema integrato ed in queste medicine di gruppo vedo a buon diritto ed efficacemente inserite altre figure professionali, quali infermieri, con varie possibili specializzazioni, fisioterapisti ,etc. 
 
Ed infine, in una logica di vera e fattiva integrazione ospedale territorio ,il concorso, secondo orari e modalità precise, di specialisti ospedalieri che possano svolgere alcune ore del loro lavoro fuori dall’ ospedale in attività di consulenza mirata dando il loro contributo all’ equipe medica dell’ ambulatorio.

Giuseppe Chesi
MD, già Direttore del Dipartimento Internistico aziendale AUSL di Reggio Emilia

15 giugno 2020
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