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Per riorientare l’alleanza terapeutica servono nuovi doveri per il medico e per il paziente

di Liuva Capezzani

10 SET - Gentile Direttore,
desidero rispondere alla lettera della dott.ssa Ornella Mancin. Due sono i punti principali che vorrei argomentare.
Il primo è in riferimento al termine “esigente” che il prof. Cavicchi ha introdotto «per definire un malato consapevole dei propri diritti, .., e come tale in grado di contrattare le cure di cui ha bisogno». La dott.ssa Mancin ritiene inappropriato il termine. In primo luogo perché “non sempre l’esigente è anche cittadino cosciente e consapevole”, capace quindi di discernere tra domande/bisogni esaudibili e non esaudibili sotto i profili scientifici, clinici, tecnologici, giuridici. In secondo luogo perché il termine rimanda a un tema di pretesa e rivendicazione, che “se è rivolta nei confronti dei medici finisce per creare dei conflitti più che un’alleanza”. 
 
Per riorientare il rapporto di alleanza terapeutica medico-paziente la dott.ssa propone che da una parte il paziente, in virtù dell’acquisita consapevolezza di cittadino contraente delle proprie cure, si assuma anche dei doveri, «.. quelli che vanno dalla salute, al buon uso dei servizi, all’obbligo di rispettare le prescrizioni del medico, di non sprecare le risorse, di adottare condotte ragionevoli, di non aggredire i medici ne legalmente ne fisicamente” (QS 26 giugno 2018), e dall’altra che il medico entri in una logica di autonomia relazionale, che riconosce obblighi reciproci della connessione e confini specifici della relazione: «A volte le nostre ragioni professionali e scientifiche cozzano con realtà spicciole  quotidiane che hanno però un ruolo determinante per le scelte del paziente. Le nostre ragioni non sono per forza sempre più vere di quelle del malato».
 
Ritengo dal mio canto opportuno integrare che quando si è esigenti lo si è per qualcuno e per le risorse di cui questi dispone ad eludere il carattere esigente di qualunque richiesta. La questione andrebbe riformulata: di quali risorse il medico si percepisce insufficiente per intendere come esigente il suo paziente?
Una prima risposta la dottoressa Mancin la offre quando fa riferimento alla mole di richieste e all’inappropriatezza delle medesime: “ho mal di schiena mi faccia fare una Risonanza Magnetica”, “ho l'orticaria perché non mi fa fare una visita allergologica”, “ho la pancia gonfia ho letto su internet che potrei essere celiaco, voglio fare il test per la celiachia”.
 
Se consideriamo la variabile quantità, determinata dai maggiori bisogni del singolo paziente “esigente” e da quelli delle maggiori persone che si ammalano di malattie croniche nell’arco di un tempo di vita sempre più lungo, il medico ha un carico di lavoro che supera la reale disponibilità delle sue risorse professionali, complice anche l’attuale carenza di medici. Se invece consideriamo la variabile qualità e il medico ritenesse uno spreco di risorse sanitarie prescrivere quella RM, la visita allergologica e il test per la celiachia, allora il solo trasmettere informazioni appropriate, corrette e scientifiche per dissuadere il paziente ad avviare quegli accertamenti potrebbe risultargli una risorsa insufficiente ed inefficace. Avrebbe probabilmente bisogno di effettuare una buona analisi della domanda dei bisogni, che declini oltre i diritti, anche desideri, organizzazioni psicologiche e sistemi socio-culturali di appartenenza del paziente. Per esempio, il paziente che per un mal di testa chieda una RM potrebbe soffrire di un’ipocondria. Questa fonda le sue radici in una storia di credenze nucleari di debolezza fisica e mentale, per cui è consigliabile non sminuire la concretezza dei sintomi lamentati, rinominare il problema, accettare di prescrivere un accertamento e contemporaneamente inviare ad uno psicologo.
 
Così pure nel caso delle malattie croniche i pazienti esprimeranno non tanto il bisogno consapevole di guarire, bensì il desiderio di ricevere un’assistenza ed accompagnamento continui che tengano conto delle loro condizioni socioeconomiche, del contesto relazionale, dei rapporti coi caregiver.  Ha il medico tra le sue risorse la formazione per realizzare quel tipo di analisi di domanda e le competenze per districarsi tra le esigenze della rete sistemica relazionale del paziente, che gravitano intorno ai temi di dolore, cronicità, o su dimensioni emozionali di organizzazione psicologica e culturale e che rischiano di diventare per lui stesso usuranti e dipendenti? Si risponderà che non gli compete.
 
Questa, però, non pare più una risposta immediata: rileggendo le parole di Cavicchi, non ha senso rispettare la dignità del malato e rappresentarne l’interesse primario continuando a trattarlo come se fosse «privo di alcuna singolarità e di una sua propria unità o peggio uno standard di malattia. Cioè privo di una sua “co-no-scienza” e di una sua “coscienza”(QS 26 giugno 2018). E’ chiaro che se il riconoscimento della singolarità, “co-no-scienza” e “coscienza” del paziente implica  che egli si assuma anche doveri nel promuovere la propria salute all’interno di un’alleanza terapeutica corresponsabilizzata, per il medico invece presume il dovere di conoscere quella singolarità, quella co-no-scienza e coscienza nella finalità di eludere il carattere “per lui“ “esigente” delle richieste del paziente. Considero quindi che una nuova deontologia ed etica della professione medica, interessata a riorientare l’alleanza terapeutica, abbia da riconoscere nuovi doveri sia al paziente che al medico. Al medico si dovrà chiedere di sapere non solo di empatia e comunicazione efficace ma anche di organizzazione psicologica del suo assistito, assumendo che tale organizzazione si rivela nella storia ed evoluzione delle sue risorse biopsicosociali con le quali si esprime, “pretende”, “contrasta”, “conviene” o si “censura” di fronte al medico.
 
Il secondo punto che vorrei argomentare della lettera della dott.ssa Mancin riguarda il passaggio in cui si afferma che la contraddizione tra bisogni del paziente “esigente” e mancata soddisfazione dei medesimi, “l'esigente la scarica sul medico minando il rapporto fiduciario”. Mi sembra che una tale affermazione trascuri che a minare ogni relazione di fiducia sia l’assenza di una negoziazione fra le parti in contraddizione, più che la contraddizione in sé, soprattutto quando la qualità del rapporto sia solo di tipo informativo e non anche comunicativo, cioè bidirezionale. Per esempio: Il paziente si informa da internet ma poi dottor Google non gli prescrive la terapia e allora il paziente si porterà dal medico per “pretendere” un parere o nel peggiore dei casi una prescrizione. Non è questo il momento in cui il medico a maggior rigore dovrebbe adempiere a una funzione comunicativa e sollecitare il paziente a discutere, a rivedere le sue “pretese”? Il paziente non pretende perché è esigente, pretende perché si è informato, informato male e da solo. Sta al medico leggere in quella pretesa un soggetto che porta una richiesta esplicita- la terapia, ed una implicita- la relazione.
 
E la relazione non si costruisce su semplici informazioni, per le quali il paziente si farebbe bastare l’accesso ad internet, e prescrizioni, ma su processi esplorativi di sintonizzazione psicobiologica, di narrativa psicologica, di conoscenza interpersonale, oltre e nonostante le asimmetrie dei ruoli. Paragoniamo per un istante il paziente esigente contemporaneo, divenuto consapevole dei propri diritti, a un adolescente che, dopo aver compreso di avere un corpo unico, una individualità e coscienza civile separata da quella dei propri genitori, pretenda di esercitare i propri diritti decisionali nonostante il disorientamento che questo gli procura. Si è mai visto un adolescente assumersi la responsabilità di qualcosa solo perché sa di averne acquisito il diritto dovere o perché qualcuno glielo ha prescritto? L’evidenza mostra che gli adolescenti più co-responsabilizzati sono quelli inclusi in relazioni che decodificano il loro pensiero e le loro condotte, rinforzandone gli aspetti più adattivi e restituendo per quelli meno adattivi un senso non colpevolizzante, non persecutorio, non dipendente, non giudicante, tali da favorire e mantenere l’assunzione di rischi e scelte responsabili. Si tratta di relazioni solo apparentemente paritetiche, ma da una delle due parti c’è sempre qualcuno che guida l’analisi e la presa di coscienza. Il medico di fronte al paziente non sarà solo una figura curante, ma anche un trainer per certa forma mentis e certa capacità di apprendimento.
 
È un formatore colto che nel paziente, favorirà, insieme a tutte le altre istituzioni sociali, processi essenziali di acculturamento.
 
Quindi cultura psicologica per il medico e cultura medico-scientifica per il paziente. Questa a mio avviso la formazione che creerà i presupposti per una rinnovata e condivisa deontologia tra medico e paziente e che necessiterà di interventi politici. La categoria medica potrà segnalare alle istituzioni politiche sia soluzioni contrattuali, per sopperire alle “esigenze quantitative” poste dai pazienti, che formative a carattere psicologico relazionale, per sopperire alle “esigenze qualitative” di riformulazione delle domande di cura in cui implicitamente il paziente chiede di essere aiutato a crescere e responsabilizzarsi. Si eviterà così che il paziente scarichi sul medico la contraddizione tra bisogni e soddisfazione dei medesi e che tale errore di attribuzione sia inteso come prima e unica causa dei contenziosi legali e dell’aggressività espressa, invece che come concausa di più fattori.
 
 
Dott.ssa Liuva Capezzani
Psicologa Psicoterapeuta Psico-oncologa

10 settembre 2019
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